Era la mattina del 18 agosto del 1806 e all’improvviso si odono il crepitare di fucili e, il ter¬rore invase l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei simpatizzanti ispanici; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli.
Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti, e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato adibito a granaio.
Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gian Marcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi e di eguale stirpe, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, Gian Marcello, solo, egli solo, furibondo lo trafigge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».
Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcel¬lo Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del ve¬scovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero ve¬gliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).
Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini
La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […].
Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).
Nella trattazione storica che hanno avuto come protagonisti gli Albanofoni nel Regno delle due Sicilie si ricorda per tradizione i giorni dal 12 e sino il 18 Agosto del 1806.
Fu allora che i briganti (?) scheggiarono Santa Sofia, terminando la vita del Vescovo Bugliari, del medico suo fratelli, il notaio, la guarnigione intera e un numero imprecisato di Sofioti/e, la vicenda, vide soccombere dal 13 a 19 agosto il piccolo Katundë, al punto tale che ogni generazione che seguì a quell’evento, è stata allevata in memoria e ricordo del momento più buio della storia locale e di tutto il regno, un lutto o senza soluzione di continuità dal 18 Agosto del 1806, ciclicamente ricordato da chi è saggio e conosce tutte le pieghe di quella vile vicenda di potere occulto.
La terribile pagina ebbe inizio con il brutale assassinio di Giorgio Ferriolo insieme al suo piccolo stato maggiore, composto dal fratello e da alcuni uomini fidati, continuò con la devastazione del paese intero e si concluse con il vile assassinio del Vescovo Francesco Bugliari, vero e unico bersaglio poco più in basso di dove era allocato il Monte del grano.
L’accento dell’eccidio è stato sempre posto sulla domestica Bertina, ma la complicità di indegni personaggi della stessa comunità Albanofona, fu determinante per portare a buon fine la volontà dei mandanti; alcuni presenti e ripagati con misere suppellettili, mentre i registi assenti, grazie all’eliminazione del prelato, poterono godere e rivestire diversi ruoli di rilievo all’interno del regno, grazie a Dio, solo durante il decennio francese per poi trovare fine, per ironia della sorte “dietro “a un granaio.
Va premesso che il Bugliari aveva avuto solidi contatti con Pasquale Baffi, i due oltre a essere stati gli unici artefici del trasferimento del collegio in Sant’Adriano, si scambiavano ogni tipo di notizia relativa agli eventi che sfociarono con la rivolta del 99.
Una fitta corrispondenza intercorse tra lo studio legale del Baffi, allocato nel centro storico di Napoli e l’abitazione paterna del Bugliari posta a monte del centro abitato di Santa Sofia d’Epiro.
Analizzando con perizia storica gli avvenimenti, apparisce molto strano che negli accadimenti napoletani a pagare sia stato solo il Baffi e che a essere devastata, sia stata sola la sua abitazione nei pressi dell’allora Biblioteca Nazionale e non il suo studio dove si conservavano preziosi manoscritti inediti e lettere di corrispondenza privata.
Il collegio guidato dal Bugliari oltre ad una vandalica devastazione, dopo il 99, riprese la sua missione culturale, religiosa e politica senza particolari patimenti.
Nonostante l’indiscutibile legame d’ideali con il Baffi, il Vescovo F. Bugliari, non fu particolarmente perseguitato dal governo centrale, eppure, una volta tornati a gestire il regno, i Borbone, diedero avvio ad una violentissima e capillare pulizia su tutto il territorio, che durò per più di quattro anni.
Un elemento di non scarsa rilevanza è il dato di fatto che i Borbone saliti nuovamente al trono si sentirono in dovere di ringraziare tutti coloro che aveva lavorato a difesa il loro regno, come ad esempio il reggimento della Reale Macedone che nel 99 fu determinante a placare gli animi degli insorti.
Quando dovettero scegliere della sorte del nipote e del parente di Don Peppino preferirono colui che si era reso disponibile e si mise a disposizione con gli organi inquirenti, avendo come punizione solamente l’esonero da ogni privilegio.
Il di che Napoleone si affacciò alle porte di Napoli, l’occasione di poter tornare agli antichi splendori veniva servita su un piatto d’argento a coloro che con i Borbone non avrebbero mai avuto gloria.
Antiche ruggini per pochi metri di terreno tra il presidente del collegio e il Lopez andavano oleate con i fumi dell’ignoranza, a quel punto armare la mano per assicurarsi ulteriore impunità fu di facile attuazione.
Apparisce strano che trascorsi appena cinque mesi dall’ingresso trionfale nella capitale partenopea di Napoleone e avviato il rinnovamento francese una pagina così nera abbia un senso, se non per garantirsi ulteriore impunità per il tradimento che a quel punto incominciava pericolosamente a vacillare.
Napoleone il 13 marzo de 1806 sedeva nel trono di palazzo reale a Napoli e pochi mesi dopo, una banda di briganti si scontrava, in contrada Pagliaspito di Santa Sofia d’Epiro, con G. Ferriolo e i suoi valorosi uomini dando avvio all’orrenda strage.
Sin troppe volte quelle sei giornate assunsero i contorni di leggenda o propinata a modo di favola.
Gli accadimenti di quel mercoledì 13 sino al martedì 19 successivo, letti in un’ottica di volgare vandalismo e brigantaggio non pongono l’attenzione sui traguardi acquisiti in poco tempo da coloro che si distinsero esclusivamente nell’intervallo storico del decennio francese; iniziando la loro ascesa proprio dopo quelle orrende giornate.
La tesi è suffragata anche dal fatto che se nel versante destro della valle del Crati, vi era un obbiettivo alla portata delle scorribande dei briganti, quello era il collegio di Sant’Adriano, quale bottino materiale sarebbe stato più consistente e facile da strappare.
Stranamente, per le loro scorribande i briganti scelgono un centro abitato, pur se era noto a tutti che in quei contesti si viveva dei fumi della povertà diffusa.
Dopo pochi mesi dalla morte del vescovo Bugliari, coloro che avevano vissuto nell’ombra ebbero su di essi i riflettori della notorietà e nel contempo si diedero alle stampe trattazioni sulla questione meridionale oltre alle ricette, soluzione possibile a quella endemica piaga.
Come racconta la storia del ricco contadino che invece di frequentare la bottega di Michelangelo e apprendere umilmente un mestiere, preferì acquistare i suoi attrezzi per ritenersi al pari del grande maestro.
Allo stesso modo da coloro che non ti saresti mai aspettato, addirittura vengono pubblicati studi linguistici senza che le ombre di questa disciplina li avessero mai avvolti.
Questi erano i temi con i quali Pasquale Baffi aveva incantato, con le sue irripetibili disquisizioni, tutta l’Europa e per essi fu la persona più ambita e ricercata negli affollati salotti intellettuali della capitale partenopea.
Chi all’indomani dei fatti di Santa Sofia ha inviato alle stampe gli scritti su cui porre solamente la parola “fine”, ignorava che fare propri quei documenti, fatti di sudore, patimenti, umiliazioni e sangue, sarebbe stato come tradire coloro che in quelle giornate sofiote diedero la vita.
Crea sgomento la pubblicazione di trattati che furono tradotti in diverse lingue, non immaginando, che fare propri gli attrezzi del maestro è possibile, altro è produrre arte e cultura.
Comparando questi gioielli di inestimabile valore letterario con altri scritti degli autori è palese la differenza nell’argomentare quelle indebitamente pubblicate, a tal proposito oserei dire che grecisti di elevato spessore si nasce, non si diventa con l’appoggio dei napoleonidi per poi tornare nell’oblio alla fine del decennio.