Da Tommaso Merlo
Entro in Albania dalla Grecia, dalla via Egnatia che portava i romani sbarcati a Durazzo fino a Istanbul. Montagne, laghi, carretti trainati da muli, villaggi dispersi nel verde, minareti bianchi che sbucano tra i tetti.
Già, la maggioranza degli albanesi sono musulmani. Fatto che non ha scandalizzato nessuno quando nel 1991 il mercantile Vlora sbarcò a Bari i primi 20.000 immigrati albanesi.
Altri tempi, gli italiani erano preoccupati solo che gli “invasori” fossero poveri e chissà cos’altro. Da quel torrido agosto di venticinque anni fa, gli albanesi si sono rimboccati le maniche fino a guadagnarsi il rispetto di tutti.
Il perché si nasconde tra le pieghe della millenaria storia albanese. Gli illiri erano pagani e lo rimasero fino a che l’Impero Romano adottò il cristianesimo nel terzo secolo dopo Cristo.
Con lo scisma del 1054 divennero ortodossi e quattro secoli dopo – nel 1478 – l’Impero Ottomano vinse la resistenza del leggendario Skanderbeg convertendo il paese all’islam.
La libertà di culto arriverà solo con l’indipendenza e il Regno d’Albania agli inizi del secolo scorso ma per pochi anni. Il regime comunista di Hoxha non ne voleva sapere di preti e iman e rase al suolo chiese e moschee. Nel 1967 l’Albania divenne addirittura uno stato ateo tra i primi casi al mondo, e lo rimase fino al crollo del regime e la conquista della laicità.
Giro per le strade di Tirana e sembra di essere in qualunque città europea, donne col velo e uomini barbuti se ne vedono di rado. Arrivo a piazza Skanderberg, cuore di Tirana, incrocio un gruppo di turisti giapponesi e uno di francesi.
Dalle navi piene di migranti in fuga dalla miseria, a quelle in arrivo piene di turisti e compatrioti arricchiti. Tirana è cambiata molto e velocemente. Mi siedo sulle scale davanti al museo nazionale, tutt’intorno i palazzi testimoniamo pagine di storia. Il museo stesso è un mastodontico palazzo dell’era comunista, mezzo secolo con al vertice il dittatore Enver Hoxha, uno staliniano di ferro che quando l’Unione Sovietica alla morte del “baffo” ammorbidì il regime, lui si rifiutò e isolò l’Albania.
Sulla mia sinistra il Teatro, opera del periodo fascista così come i sobri palazzi ristrutturati che oggi ospitano i ministeri. Breve ma intensa l’occupazione italiana durante la seconda Guerra Mondiale e che non ha intaccato la storica amicizia tra i due popoli.
Sulla sinistra l’antica moschea Ethem Bey, alfiera dei cinque secoli di dominio dei sultani. E poi l’oggi, la democrazia liberale testimoniata dai grattacieli di vetro e di metallo che ospitano hotel di lusso e banche estere. Non è la guerra la protagonista del passato albanese ma la povertà che l’ha resa facile preda di interessi stranieri.
Il popolo albanese non ha mai impugnato le armi per attaccare ma solo per rivendicare una parità di diritti negata o in casa propria dagli invasori o dove qualche confine lo ha diviso come in Kosovo o Macedonia.
M’incammino lungo il Boulevard dei Martiri e noto una lussuosa chiesa ortodossa inaugurata di recente, poco oltre vedo un’imponente moschea in costruzione grazie a finanziamenti arabi. Il “mercato” albanese fa gola. Banche e ditte costruiscono uffici, le religioni luoghi di culto.
M’incammino per le vie del centro, i palazzi sovietici lungo le vie principali sono stati pitturati di giallo e verde e rosso, alle loro spalle quelli in mattoni rossi non intonacati e quelli moderni dalle forme sinuose.
Il cambiamento di Tirana è stato talmente rapido che gli anziani fanno più fatica dei giovani ad attendere che il semaforo divenga verde per attraversare la strada.
Davanti alle boutique di lusso sono rare le cassette che vendono ancora sigarette sfuse. Uomini anziani, in giacca, camminano lentamente guardando il loro mondo cambiare; giovani, in jeans, corrono guardando il loro i-Phone.
Penso che l’Albania sia tanta montagna e poi mare, sia tanta asprezza e poi dolcezza. Incontro in giro italiani che negli ultimi anni sono arrivati in massa in Albania a fare business.
Ristoranti, negozi, locali, appalti. Meno tasse, meno competizione e un ambiante piacevole dove vivere. Mi fermo a bere un caffè e mi guardo intorno, sono arrivati i soldi in Albania, in ritardo rispetto ad altri paesi ex comunisti ma alla fine sono arrivati.
Per l’Albania è sempre stato così, tutto più difficile. Parlo con un amico sulla questione della religione. L’Albania inizierà a breve le negoziazioni per entrare in Europa – suo destino naturale – e sarà un membro a maggioranza musulmana.
Non un dettaglio coi tempi che corrono e le guerre in corso. Gli faccio presente che oltre alla grande moschea ho notato che banche islamiche finanziano l’autostrada Elbasan-Tirana e altri grossi cantieri nel centro della città.
Mi spiega come in Albania il Ramadan praticamente si faccia, che i matrimoni misti tra musulmani e cristiani sono comuni e come siano pochi i praticanti. Gli albanesi musulmani sono poi in gran parte “bektashi” e cinquant’anni di ateismo di stato hanno sedato certi ardori religiosi.
Tutto vero, gli albanesi hanno un rapporto tutto personale con la religione, un esempio di tolleranza e laicità. Ma in un mondo in cui il radicalismo religioso è tornato a soffiare violentemente, e dove la Turchia di Erdogan guarda con rinnovato interesse verso i Balcani, gli albanesi dovranno tenere gli occhi aperti.
Riparto da Durazzo, città dove le truppe di Cesare e Pompeo si scontrarono per la prima volta nella guerra civile romana. Visito l’anfiteatro e poi salpo verso l’Italia insieme a tanti albanesi che tornano al lavoro.
Sembrano passati secoli da quell’agosto del 1991.