Da Marika D’Ambrosio, iMille.org
A Bolzano il 14 e 15 gennaio è stata realizzata una mostra fotografica dal titolo: “quando approdarono gli albanesi fu l’inizio della convivenza tra albanesi e autoctoni sul territorio altoatesino”. Sulle prime non mi era del tutto chiaro di cosa ne andasse, del resto nel 1991 ero ancora molto piccola e i miei primi ricordi di un contatto con la cultura albanese risalgono agli anni successivi alla guerra del Kosovo quando a scuola la mia classe diventava sempre più multiculturale.
Eppure una volta davanti alle immagini della nave “Vlora” con a bordo migliaia e migliaia di persone tutto è diventato più chiaro: non era solo il film “Lamerica”, era davvero un pezzo di storia più che attuale! Nel pubblico insieme a me era seduto qualcuno che con quella nave era salpato, partito tra felicità e sofferenza alla volta dell’ignoto e di un’Italia conosciuta solo tramite la pubblicità e accompagnato dal terrore di essere di nuovo riportato a casa. Il regime comunista di Enver Hoxha non sfuggì infatti all’effetto domino inaugurato dalla caduta del muro di Berlino e sull’onda di quel sentimento che portava ad andare oltre l’isolamento più buio e allo sfacelo di un intero sistema socio-politico, dopo l’occupazione delle ambasciate straniere a Tirana (estate 1990), nei primi mesi del 1991 decine di migliaia di albanesi partirono su navi di fortuna per la traversata che dopo 32 ore li avrebbe condotti verso l’altra sponda dell’Adriatico.
Partirono semplicemente così, a seguito del passaparola, con quello che avevano addosso, alcuni senza salutare, e con solo un bagaglio carico di speranza. Il porto di Durazzo stava finalmente aprendo e non c’era assolutamente tempo da perdere!
L’anno 1991 segna così la data in cui anche l’Italia inizia a conoscere il mondo dei profughi. A quel tempo non mancò il senso di sbandamento e di incertezza e dopo una prima fase di confusione e impreparazione il Governo italiano riuscì ad organizzare, in collaborazione con le Regioni e le Province Autonome, i primi centri di accoglienza. Un gruppo di circa 350 albanesi venne inviato in Alto Adige presso la caserma “Cesare Battisti” di Monguelfo, in Val Pusteria.
Qualcuno alla vista della neve, della valle ristretta e soprattutto delle scritte in italiano e tedesco non si fidava di quello che stava succedendo e si rifiutava di scendere da quel treno dove aveva viaggiato tutta la notte per paura di essere rimpatriato. “Aiuto, ci stanno portando in Austria e se la geografia non ci inganna da qui ci riporteranno a casa”. Un salto nel buio per tutte queste persone che non avevano la minima idea delle particolarità e del curriculum storico di questa comunità bilingue che li avrebbe accolti, anche se non era ancora chiaro come. Fatto sta che ci fu una grandissima mobilitazione e non solo dei soliti noti Alpini, Croce Rossa, Caritas e Protezione Civile: lo sforzo più grande venne fatto dai cittadini, dall’uomo comune.
Toccanti sono le testimonianze di affetto e di ospitalità oltre ogni aspettativa. “Tutti venivano ad aiutarci spontaneamente e si davano da fare nei modi più disparati”. Delle scene decisamente antitetiche a quelle dello “Stadio della vittoria” di Bari dove furono ammassati a mo’ di ghetto gli “indesiderati”.
Qualcosa di “vittorioso” è però rinvenibile nel finale. Il senso e lo scopo di questa esposizione è stato quello di voler fornire una testimonianza di convivenza, uno strumento di memoria e di orgoglio per le seconde e terze generazioni di albanesi affinché non dimentichino “la fatica” fatta dalla prima generazione. Una mostra anche per dire grazie all’Alto Adige che con il suo DNA all’insegna dell’accoglienza, non solo a ragion delle forti migrazioni che si ricordano tra le due guerre in questo territorio, ha reso possibile la realizzazione di un’integrazione riuscita e di successo.
È significativo il fatto che questa mostra abbia avuto luogo in un quartiere popolare della città (Aslago) come a ricordare che lo scambio si realizza nella vita reale di tutti i giorni e non soltanto tra le strade e i portici del centro. Un altro fatto curioso è che a tutti i presenti piace ricordare quei -seppur difficili- momenti un po’ come al sudtirolese piace parlare della guerra mondiale e dei suoi effetti. Non manca l’ironia: “Vdekje fashizmit, liri popullit!” (morte al fascismo – libertà al popolo!) oggi come oggi è un saluto che, un po’ per scherzo e un po’ per tradizione, usano gli albanesi per dirsi ciao e per ricordare proprio quei film di propaganda che passavano in tv durante gli anni del comunismo.
La mostra tocca diverse tappe di questo viaggio-esodo verso la “Terra promessa”: il treno dalla Puglia verso Monguelfo; il primo contatto con il freddo compensato però dal calore umano; a metà strada tra speranza e perplessità; in cammino insieme anche se non si sa ancora verso dove; l’arrivo in caserma e la giornata tipo per gli adulti alle prese con le burocrazie e per i bambini alle prime esperienze con la neve.
La mostra nasce dagli scatti di Guido Perini che nel 1991 venne incaricato dal caposervizio dell’Alto Adige di documentare l’arrivo dei primi profughi in Italia e in particolar modo a Monguelfo. Come ricorda: “davanti a quella realtà che non sarei mai riuscito ad immaginare, dimenticai immediatamente il programma che mi ero prefissato e mi accorsi che scattavo automaticamente […] purtroppo non riuscii a parlare con loro perché nessuno parlava italiano, ma ho ancora negli occhi il loro sorriso e la loro forza nel superare tutte le difficoltà che avevano incontrato nel loro cammino. […] quella sera ho avuto una grande difficoltà nel scegliere le foto da pubblicare in quanto ognuna mi sembrava significativa”.
Per quanto mi riguarda, la foto che più mi colpisce è quella di un bambino che affacciato dal finestrino del treno guarda il fotografo mentre con la mano destra fa la “V di vittoria”. Scoprirò solo in seguito che quel bambino è Agron Shehaj, giovane imprenditore a capo di un gruppo che fattura 20 milioni di euro l’anno.
La più grande vittoria allora è proprio questa: la storia a lieto fine di un’integrazione riuscita. La storia di circa 5.000 albanesi che si sono rifatti una vita in Alto Adige, che qui vivono e lavorano, che si distinguono per il senso della famiglia (anche se qualcuno fa notare che la “questione femminile” può essere ancora migliorata), lo spirito imprenditoriale, la partecipazione alla politica locale e l’attività interna ai partiti.
Pienamente inseriti nella società alto atesina, orgogliosi del presente ma ugualmente fieri del loro passato./iMille.org