Un incontro letterario dedicato alla scrittrice Diana Çuli scatena le proteste di chi non le perdona una recensione scritta negli anni del regime. Cancellato l’evento con la scrittrice, rinviato l’appuntamento con la memoria
È partito da poche settimane a Tirana “La letteratura e la città”, un progetto che si propone di portare l’attenzione sulla letteratura e di restituire alla capitale alcuni dei suoi scrittori più noti. Giunto al terzo appuntamento, in calendario c’era un talk con Diana Çuli, un volto affermato del panorama culturale albanese: energica e poliedrica sessantenne, Çuli è autrice di romanzi tradotti in diverse lingue (in italiano sono usciti Scrivere sull’acqua e Angeli armati), traduttrice in albanese di autori come Sartre, Gide, De Beauvoir, Levy, Modiano, Bevilacqua e La Stella e conduttrice di una trasmissione televisiva settimanale di approfondimento letterario.
Se sulla manifestazione si è scatenata la bufera non è dunque per lo spessore della relatrice, ma per il taglio dell’incontro, dedicato alla scrittura “prima e dopo il regime”. È bastata infatti questa presentazione dell’evento a scatenare l’incontenibile indignazione dello scrittore Agron Tufa, che sul caso è intervenuto a gamba tesa, definendo Diana Çuli “un’assassina” e lanciando un incontro nello stesso luogo e alla stessa ora, per “disturbare” la discussione con la lettura “disobbediente” di poesie di un poeta morto giovane, “distrutto dal regime per cui anche Çuli scriveva”.
La tragedia di Genc Leka
Genc Leka nacque nel 1941. Figlio di un noto contestatore del regime che fuggì dall’Albania nel 1950, era insegnante nella scuola del suo villaggio, nei pressi di Librazhd. Complice l’albero genealogico, finì molto presto sotto osservazione, insieme allo sventurato compagno di penna Vilson Blloshmi. Entrambi erano personaggi insoliti, e solo per questo ritenuti pericolosi dal regime puritano e conformista di Hoxha: leggevano libri proibiti, dunque i loro versi dovevano essere “sovversivi”, le loro idee dovevano essere “reazionarie”, non c’era dubbio: quei due schernivano il socialismo, sabotavano il lavoro della cooperativa dove avevano lavorato negli ultimi anni.
Nel 1977, dopo mesi di reclusione e torture, Genc Leka venne infine dichiarato colpevole. Tra le tante carte che gli inquirenti raccolsero per imbastire il processo politico – testimonianze degli informatori, trascrizione delle conversazioni con i compagni – ci sono anche le recensioni delle sue poesie. Una di queste è firmata da Diana Çuli, all’epoca venticinquenne redattrice del giornale “Drita”. Durante il processo farsa, alcuni passaggi della sua recensione vennero in effetti sottolineati dall’accusa: pessimismo, nostalgia per il passato, smarrimento ideologico. Ma chi conosce la storia dell’Albania socialista sa che al di là delle testimonianze raccolte, per Leka e Blloshmi il processo fu solo un pezzo di teatro; nei processi per “sabotaggio economico” e per “agitazione e propaganda”, la colpevolezza era scontata per tutti, e la pena poteva anche essere l’esecuzione.
I crimini di ieri e gli errori di oggi
Secondo l’Istituto degli Studi sui Crimini e le Conseguenze del Comunismo, le persone perseguitate per motivi politici furono circa 100.000. Di questi, 59.000 sono stati portati al confino, 34.000 sono stati carcerati, 6.000 uccisi. I corpi di oltre 4.000 persone condannate a morte non sono ancora stati ritrovati. Di fronte a tanto orrore le informazioni sono ancora molto poche e molto frammentaria è la documentazione disponibile. L’unica cosa su cui oggi sono in molti a convenire è che uno studio approfondito, un dibattito o qualsivoglia tipo di confronto tra le parti non c’è mai stato.
In questa “Albania democratica” capita quindi che il rancore di chi ha vissuto sulla propria pelle o sulla propria famiglia la brutalità di quel sistema ceda all’accanimento verso una singola persona: in questo caso, verso chi nella tragica vicenda di Genc Leka ha avuto un ruolo del tutto marginale, se non inconsistente. Una manovra che nel gesto di sottrarre un foglio dalla risma, decontestualizzandolo e caricandolo di un peso che non ha, sa solo di manipolazione.
Se la risposta è l’odio
Per rispondere alla “provocazione” di una scrittrice, che si presta ad un incontro pubblico per rispondere su come era scrivere un testo senza avere libertà di pensiero e di parola, il collega Agron Tufa ha organizzato una lettura parallela. Su un tema così serio e importante, nessun dialogo è stato ritenuto necessario. Ancora una volta sono state elargite sentenze senza un confronto tra le parti e quelle venti persone che hanno risposto alla chiamata dell’”antagonista” non hanno avuto altra possibilità che rimanere arroccati nelle convinzioni della propria fazione. Anche questa volta lo spettacolo ha ceduto il posto al dialogo, e la lettura di versi poetici si è trasformata addirittura in un gesto di odio: un sentimento per sua natura infantile e deresponsabilizzante, ma utile a dipingere una realtà pura, in cui il bianco e il nero, la vittima e il carnefice rimangano perfettamente distinguibili.
Eppure, nel 2017, nemmeno in questa periferia ottomana dovrebbe essere così difficile rifarsi ad Hannah Arendt per richiamare quella fondamentale distinzione tra responsabilità penali e responsabilità morali, per ricordare cioè che a prescindere dalla peggiore o migliore condotta individuale, chi ha vissuto e lavorato negli anni del regime non può negare la sua appartenenza storica a quel sistema. Un problema che non riguarda solamente Diana Çuli, ma chiunque abbia vissuto tra le due Albanie, e chiunque anche oggi viva la sua epoca storica e la sua società sentendosene onestamente parte.
Avvertire, nel profondo delle propria coscienza, il peso di una responsabilità che fu collettiva, non significa certo che non sia importante distinguere tra chi era del tutto estraneo all’apparato governativo e investigativo e chi invece ne faceva parte, tra chi semplicemente (soprav)viveva e chi elaborava e portava avanti decisioni politiche; ma quand’anche questo distinguo sia urgente e necessario, dovremmo tutti, senza distinzioni, cominciare ad avere il coraggio di dire ad alta voce che se Enver Hoxha morì al caldo del proprio letto fu anche grazie alla collaborazione e al sostegno dei suoi connazionali: grazie a tutti noi.
Purtroppo, ancora oggi, a 27 anni dalla caduta del muro, in Albania continuiamo a preferire il pubblico dileggio del singolo per mettere a tacere i dubbi che abbiamo su noi stessi. Nei giorni scorsi è toccato a Diana Çuli. Attendiamo senza alcuna impazienza il prossimo./balcanicaucaso.org