Di Matteo Mandalà, Hora e Arbëreshëvet
“Oggi è l’8 Marzo, festa della donna…” è la frase che apre il prologo del romanzo di Ismete Selmanaj, la prima opera che viene al lettore italiano nella traduzione dall’albanese effettuata dall’Autrice. Ai più esigenti forse apparirà una forzatura, ai più benevoli una coincidenza, ma non si può tacere di dire che, a causa dell’accumularsi di alcuni ritardi, queste pagine prefative siano state scritte veramente nella medesima data contenuta nell’incipit appena citato.
Il casuale sincronismo m’è parso tanto significativo quanto utile, se non altro perché provocando un’inevitabile sovrapposizione della realtà alla fiction, e viceversa, almeno in questo caso ha consentito di misurare l’eventuale distanza che potrebbe separare il lettore italiano dal tema di questo romanzo, ovvero dal tema della condizione della donna in un paese come l’Albania. Non che da questa parte dell’Adriatico e, più in generale, nel mondo Occidentale manchino esempi di violenza e di sopraffazione, di sottomissione e di umiliazione ai danni del cosiddetto sesso “debole”.
Anzi…Pur nel profluvio retorico che di anno in anno dilaga nella giornata odierna, parallelamente al rinnovarsi di recriminazioni contro le forme esasperate di maschilismo e di forti appelli a sostegno delle pari opportunità, è davvero impossibile attutire i rumorosi richiami alla dura realtà, ai fatti violenti, spesso di sangue, che vedono le donne cadere martiri innocenti e indifese, sempre più spesso vittime delle persone che dovrebbero amarle, né più né meno come in Albania. Da questo punto di vista, dunque, nessuna differenza, ahimè ! Ciononostante, questa tristissima convergenza non è sufficiente per comprendere fino in fondo la condizione della donna albanese, che Ismete Selmanaj descrive con semplicità e con estremo senso realistico inseguendola sul crinale della storia recente che ha investito il suo Paese.
La distanza a cui mi riferisco, infatti riguarda almeno due aspetti che, relativamente al tema del ruolo della donna, contraddistinguendo da secoli la cultura albanese, sono del tutto assenti in quella italiana. Alludo, in primo luogo, al radicamento storico nella psicologia sociale albanese di un maschilismo autoritario sancito e “istituzionalizzato” dalla filosofia arcaica del Kanun, il corpus di leggi consuetudinarie trasmesse oralmente le quali, sebbene maggiormente diffuse e applicate soltanto in alcune aree delle montagne settentrionali albanesi, conformano e illuminano di fatto anche la natura e la qualità dei rapporti di genere che, oggi come nel passato (anche recente), pervadono la società moderna albanese, sia quella metropolitana, decisamente più emancipata, sia quella contadina, più asservita alla tradizione.
Non è un caso che, per quanto possano apparire (erroneamente) estremi o marginali i fenomeni che vedono ancora oggi il sesso femminile relegato a una condizione di assoluta subalternità all’uomo, non v’è alcun dubbio sul fatto che anch’essi risalgono all’antico e primitivo ordinamento sociale tribale che, “per consuetudine” oziosa nel passato, ha costrettola donna albanese alla funzione di serva o, peggio, di schiava. Sicché non fa specie che già nel racconto di Ismete Selmanaj possano contemporaneamente convivere nel medesimo contesto sociale e culturale della Tirana comunista, e tuttavia da sempre capitale e centro propulsivo dell’emancipazione della donna, nuclei familiari radicalmente diversi in quanto a concezione e prassi dei ruoli assegnati ai propri membri in relazione al sesso.
L’emersione di questo dato rilevante dalla fiction indica, in secondo luogo, anche il fallimento dei tentativi compiuti di estirpare le forme degenerative del maschilismo albanese. A prescindere dagli ordinamenti politici e ideologici al potere, infatti, pochi sono stati i progressi registrati e quasi tutti limitatamente alle realtà urbane, che sono quelle maggiormente predisposte ad assorbire gli influssi benefici della cultura dei diritti umani provenienti dall’Occidente. Nemmeno il regime di Enver Hoxha, tra i più sanguinari e ferrei dell’est Europeo del periodo della guerra fredda, riuscì a imporre quella svolta che la condizione della donna imponeva persino a una ideologia cosiddetta progressista come quella comunista impiantata in Albania.
Le campagne moralizzatrici a favore dell’emancipazione femminile lanciate in piena rivoluzione culturale tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del secolo scorso, non solo si limitarono a una sorta di cosmesi sociale, ma non scalfirono minimamente la dura scorza della psicologia maschilista. A nulla sono valse le allucinanti teorie sulla costruzione dell’uomo nuovo grazie al socialismo, che nel suo romanzo Ismete Selmanaj giustamente analizza criticamente non senza giustificate dosi di sarcasmo, dacché quella concezione dei rapporti di genere è strutturalmente radicata nella cultura profonda degli albanesi, tanto degli uomini quanto – anche se in misura minore – nelle donne. Sicché, non sorprende affatto che, pur caduto quel regime e pur instauratosi un nuovo ordine democratico, nulla cambiasse nell’orizzonte delle donne albanesi: come un fiume carsico che ad un certo punto risale in superficie, anche le più retrive tradizioni kanunarie con il loro spaventoso carico di violenza sono riaffiorate, direi puntualmente, nel corso del quarto di secolo post-comunista.
La consapevolezza di Ismete Selmanaj intorno a questa fatale circostanza è decisa: uno dei filoni che intesse la trama narrativa del suo romanzo è costituito, infatti, dal personaggio maschile Estref che, durante il regime comunista, in forza del potere conferitogli sia dal Partito e dalla sua carica di direttore scolastico, ma sia anche dalla paura e dall’omertà delle sue vittime, stuprava ciclicamente le sue giovani studentesse. Tra queste, anche l’eroina, Mira, la quale rimasta incinta, viene separata dal figlio appena nato dal padre naturale che, nascondendo per decenni il bambino alla madre, pensa di poter cancellare con questo atto codardo le prove del suo crimine. Ebbene Estref continuerà anche dopo la caduta del regime ad esercitare il suo infame potere, per di più notevolmente accresciuto a causa degli opportunismi politici celati nelle pieghe di una democrazia molto fragile, minacciando, ricattando, persino sottoponendo Mira ad altri e ripetuti stupri, pur di dissuaderla dalla ostinata ricerca del proprio figlio.
Dal canto suo, Mira interpreta il ruolo della protagonista di questo splendido romanzo di formazione: una donna che trova la forza di sopravvivere ai soprusi grazie all’amore che nutre per il figlio costituisce il simbolo della volontà femminile che sempre riesce a superare le difficoltà, anche quando tragicamente sconvolgenti, a porsi come punto di riferimento degli altri, a ricominciare una nuova vita e, addirittura, a rappresentare l’ancora di salvezza per le tante altre donne che in tempo di democrazia e di apparente libertà hanno avuto la sventura di vivere la medesima esperienza.
La storia del romanzo è in effetti la metafora della società albanese pervasa da un continuo e interminabile processo di trasformazione delle sue strutture economiche, sociali e culturali, stordita dalle rapidità con la quale vengono importati nuovi principi morali e inedite forme regolative che, cozzando con una realtà ancestrale in via di cambiamento, hanno spezzato il delicato equilibrio che durante il regime era assicurato dalla mano ferrea della morale del Partito. Oggi, quella realtà va cambiando radicalmente il proprio volto, acquisisce profili di modernità sociale, registra un sempre crescente sviluppo economico, denota un livello culturale che nulla ha da invidiare a quello delle società più evolute dell’Occidente europeo. Il declino delle primitive regole claniche del Kanun appare ineludibile e con il progredire inarrestabile della società albanese ne annuncia la definitiva scomparsa. Decisivo è stato il sostegno delle giovani generazioni di intellettuali albanesi, molti dei quali hanno potuto affinare gli innati talenti soggiornando in Italia e in Europa.
Ismete Selmanaj, che da anni vive in Sicilia, è anche autrice di un secondo romanzo che affronta altri aspetti, non meno gravi e sanguinari, di quella psicologia sociale in parte derivata dalla consuetudine montanara. Mi auguro che anch’esso possa essere offerto al lettore italiano, se non altro, per un verso, per completare la visione d’insieme e consolidare la conoscenza di questi fenomeni e, per un altro verso, per cogliere la novità costituita da questo speciale settore della letteratura contemporanea che gli studiosi definiscono “migrante” e che in Italia conta ormai significativi casi, tra i quali quello rappresentato da numerosi scrittori albanesi, molti dei quali sono donne che hanno saputo raccontare magistralmente le dinamiche della realtà sociale del loro Paese d’origine, dando il maggiore e più convinto contributo di idee e di proposte alla difficile e lunga battaglia di emancipazione e di libertà di coloro che abitano l’altra metà del cielo.