Di Carlo Alberto Rossi
Quando Edi Rama e’ arrivato al governo, la prima cosa che ha fatto e’ stata quella di restaurare l’imponente edificio del Palazzo della Luogotenenza, progettato dall’architetto fiorentino Gherardo Bosio, poi diventato la sede del Governo albanese, che con i suoi austeri travertini si impone nella prospettiva del Boulevard.
Chi ha lavorato a quel restauro del 2013, imprese e architetti albanesi, lo ha fatto seguendo i progetti originali dell’epoca della costruzione, che in mancanza di un vero progetto di restauro sono stati cercati e trovati negli archivi, andando in Italia ad approvvigionare gli stessi materiali per ricostruire la scalinata d’accesso come originalmente prevista dagli stessi progetti. I commenti di tutto il cantiere erano che la cosa migliore che si potesse fare era ripristinare il palazzo com’era, perche’ lo avevano fatto, e bene, gli italiani, quegli stessi italiani (Berte’, Di Fausto, Ballio Morpurgo, Brasini, Bosio e altri) che avevano progettato e realizzato la nuova capitale, e il complesso del Boulevard, partendo dal primo piano urbanistico, e proseguendo dalla Casa del Fascio (oggi Universita’) alla Gioventu’ del Littorio Albanese (oggi Rettorato), all’Opera Dopolavoro Albanese (oggi Accademia delle Arti), per terminare al complesso dei ministeri verso e attorno a Piazza Skanderbeg, passando per l’Hotel Dajti, l’Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione gli Infortuni sul Lavoro – I.N.F.A.I.L. (poi Comitato Centrale e oggi Parlamento) e il Palazzo della Luogotenenza (oggi del Governo).
Ancora pochi anni orsono, gia’ Rama regnante, l’Ambasciata d’Italia ancora organizzava mostre e pubblicazioni sull’architettura razionalista italiana in Albania, sulla quale da alcuni anni si erano concentrati lavori di ricerca storica e finanziamenti (italiani e pubblici) per il restauro.
Meno di due anni dopo, il fattaccio: una oscena pensilina di plexiglas e luci al neon, presunta opera di arte moderna di tal Philippe Parreno, veniva aggiunta alla facciata monumentale del palazzo, mutando l’imponenza del suo accesso principale in un piu’ frivolo ingresso di un teatro di Broadway, e l’aggiunta di un tappeto rosso nelle occasioni ufficiali trasformava quell’ingresso solenne in un “red carpet” degno di starlettes del burlesque. Un’altra presunta opera di arte moderna, poco piu’ di una caricatura di un fungo allucinogeno, viene aggiunta al giardinetto antistante, subliminale messaggio di un ormai prossimo “stupefacente” trionfo della volonta’ del premier. Dal potere tetragono al bordello parigino, con buona pace di Bosio e della memoria di un periodo comunque costitutivo della citta’ e del paese.
Si alzarono molte voci indignate dal mondo albanese, ma nessuna voce istituzionale italiana.
Dopo pochi mesi il crimine storico e architettonico diventa seriale con l’abbattimento dello Stadio Olimpico (poi stadio Nazionale Qemal Stafa), altro progetto di Bosio, elemento costitutivo del sistema Piazza Skandebeg – Boulevard – Casa del Fascio, per procedere ad una discutibilissima speculazione commerciale abilmente nascosta dietro al millantato bisogno di uno stadio adeguato per la nazionale di Calcio reduce da una inedita qualificazione ai Campionati Europei.
Solo le proteste di molti cittadini e di qualche architetto e storico hanno consentito il teorico recupero della facciata monumentale, peraltro nascondendola all’interno di un voluminoso quanto sproporzionato edificio pacchianamente colorato con i colori nazionali.
Nonostante l’indignazione popolare, e nonostante altre sollecitazioni piu’ dirette, ancora una volta abbiamo assistito ad un imbarazzato silenzio delle istituzioni italiane, volutamente impedite grazie al complice ingaggio di un altro architetto fiorentino, presto diventato assiduo ospite della sempre muta Ambasciata d’Italia a Tirana.
Passano pochi mesi e un altro attentato all’architettura di Bosio viene perpetrato da un misterioso concorso di idee indetto da un sindaco che aveva promesso “zero nuove costruzioni” il quale prevedeva la costruzione di immondi e improbabili palazzi al posto dei prati verdi che incorniciano e fanno risaltare il candido corpus della Casa del Fascio (oggi l’Universita’), ancora una volta opera di Bosio.
Attentato sventato, o piu’ probabilmente solo rinviato, dalle vibranti proteste dei cittadini di Tirana che costrinsero il municipio ad annullare il concorso.
E ancora una volta nessuna voce istituzionale italiana ha squarciato l’ormai lungo silenzio sul tema.
Riuscira’ invece l’annoso tentativo, perpetrato ostinatamente fin dai tempi del regime comunista (ma fino ad allora senza molto successo), di cancellare l’impronta “a forma di fascio” che gli urbanisti italiani avevano impostato nella realizzazione dell’asse principale della citta’ di Tirana, il Boulevard tra Piazza del Littorio (oggi piazza Madre Teresa) e Piazza Skanderbeg, la quale costituiva esattamente il fascio, mentre il boulevard costituiva l’asta e lo stadio la penna (o scure). Della fine dello stadio abbiamo gia’ detto, mentre l’altro elemento riconoscibile, il fascio, e’ oggi sostituito da una piramide ribassata, quadrata e disassata rispetto ad ogni asse visivo, che copre con un desolante spazio vuoto un concetto ripudiato ma con un grande valore storico.
Ovviamente il tema “fascio” fornisce un alibi, per alcuni sufficiente, per l’ulteriore silenzio italiano.
Infine arriva l’attuale, ma forse non ultimo, assalto contro un’altra opera italiana, quel Circolo Skanderbeg (oggi Teatro Nazionale) costruito nel 1938 su disegno dell’arch. Giulio Berte’ dall’Impresa Pater – Costruzioni Edili Speciali di Milano, che per costruirlo si avvalse di tecniche sperimentali appena brevettate in Italia con un sistema di casseforme prefabricate di legno a perdere per contenere il cemento (forse alleggerito con trucioli di legno). Il risultato e’ che dopo 80 anni di incuria e omessa manutenzione quel manufatto e’ ancora intatto, cosa che si fatica a dire per la maggior parte degli edifici costruiti dal regime comunista. Certo che la storia del Circolo Skanderbeg infastidisce certi ignoranti figli del comunismo albanese, perche’ quel circolo, che l’attuale Ministro della Cultura albanese chiama erroneamente e goffamente “doppolavoro”, era stato costruito apposta, dotato di teatro (che allora si chiamava “Teatro Savoia”), di salotti di conversazione, di palestre e di piscina, per lo svago, il diporto e l’arricchimento culturale delle classi dirigenti di allora, italiane ed albanesi, proprio per creare la possibilita’ di permeare le due culture e le due etnie.
Oggi quel complesso si definirebbe “uno strumento di integrazione”, ma il furore iconoclasta del Sultano Palazzinaro vuole riuscire dove non e’ riuscita l’incuria del tempo, per sostituire un edificio dai valori architettonici e storici, e pure tecnologici, con qualche improbabile (ma assai lucrativa) torre sghemba disegnata dai suoi soliti allucinati architetti di corte, magari ricorrendo ancora una volta ad uno dei suoi mercenari italiani.
Forse questa volta le istituzioni italiane ricorreranno alla scusa del “rispetto per la sovranita’ albanese” o ad altro di simile, oppure semplicemente si rifugeranno nel loro ormai abituale silenzio, dimenticando ancora una volta i soldi (pubblici e italiani) da poco spesi per il restauro delle architetture italiane “tra le due guerre”, allora giustificati come recupero di valori culturali utili anche alla promozione del turismo, e oggi sostituiti a quell’identico scopo ufficiale, da inconoscibili finanziamenti per la realizzazione di falsi bunker privatizzati, quasi celebrativi del comunismo albanese.
Nel giro di pochi anni sta trovando compimento un disegno deliberato di cancellazione della memoria italiana della citta’ di Tirana, peraltro legittimamente diventata tutt’uno con la memoria albanese, che si coniuga con l’effettivo abbandono della lingua italiana, e con il fragoroso crollo dell’influenza politica e diplomatica italiana in Albania, con buona pace del vantato titolo di primo donatore e di primo partner commerciale.
Ai lettori, e agli elettori, comprendere quali siano le cause, e quali gli effetti.