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Lega A – Klaudio Ndoja, il film di una vita da clandestino a capitano

di Redazione Pianetabasket.com

Nell’anno in cui la Virtus Bologna di Abbio e Danilovic, di Rigaudeau e Messina vinceva la Coppa dei Campioni (23 aprile 1998) il 13enne Klaudio Ndoja lasciava l’Albania da clandestino con papà Paulin, mamma Ratina e la sorella più piccola Alba per una avventura di vita vera che potrebbe essere la trama di un film, visto che oggi, di quella squadra ne è il capitano. Gliela fa raccontare Luca Aquino per La Gazzetta dello Sport.

Basket. L’amore per il basket è nato a 9 anni, ma non ho mai pensato sarebbe diventato il mio lavoro. Le scuole erano chiuse, andare al campo da calcio dove si ritrovavano tutti era molto pericoloso, per le strade c’erano proiettili vaganti. Mio padre un giorno montò un canestro davanti a casa e così ho cominciato.

Fuga dall’Albania. Nel 1998, mia sorella di quattro anni più piccola fu ferita a un polpaccio da un proiettile vagante. Fu la scintilla che fece prendere a mio padre la decisione di andare via. Una scelta difficile, non so se metterei i miei figli su un barcone che rischia di affondare. Tanti sono morti lungo quel tragitto… Mio padre vendette tutto: macchina, mobili, attrezzi da lavoro. Servivano 1,5 milioni di lire a testa. Arrivammo a Valona, da dove saremmo partiti per l’Italia, e ci arrestarono. I poliziotti ci sequestrarono chiedendo dei soldi per liberarci e lasciarci partire. Siamo stati due giorni in carcere, in 16 in una cella minuscola, senza mangiare e bere. Avevo 13 anni, dopo due giorni la gente era esasperata, cominciò a ribellarsi e ci picchiarono. Poi gli scafisti pagarono il riscatto e riuscimmo a partire.

Eravamo in 30-35 persone sulla barca, le donne e i bambini erano stati messi al piano di sopra come scudi umani per evitare che ci sparassero. Perché il traffico di persone nascondeva altre attività. Ricordo che sotto i piedi avevo due borsoni pieni di cocaina. Ci spingono in mare a 40 metri dalla riva, ma molti non sanno nuotare, poi finiamo su pullmini senza sedili dove bisognava sdraiarsi a terra.

Italia non è il paradiso. A Paderno Dugnano mio padre trovò lavoro in nero e noi vivevamo nello scantinato della sua fabbrica. Nessuno doveva sapere di noi, perché in teoria solo lui poteva starci.

Basket e parrocchia. Andavo tutti i giorni all’oratorio a tirare. Nella mia testa era un posto sicuro, non poteva succedermi niente. Il parroco, Don Marco Lodovici, mi chiede di giocare nel campionato Csi, ma alla prima partita mi bloccano al riconoscimento perché non ho documenti. Avevo solo un certificato famigliare di nascita coi nomi di mio padre, mia madre, il mio e di mia sorella senza foto. Per farmi giocare, il parroco fece una sorta di autocertificazione col timbro della chiesa e una mia fototessera. Fu decisivo per il mio futuro: senza quell’anno in oratorio non avrei i 4 anni di formazione e non potrei giocare da italiano.

Fine della clandestinità. Nel 2001. Fu Desio a regolarizzarmi, la mia prima squadra. Fecero da garanti e trovarono un affitto per me e la mia famiglia. Mio padre venne messo in regola al lavoro e tutti ottenemmo documenti e permesso di soggiorno.

Razzismo. Ne ho sofferto fino a 20-21 anni perché non avevo nessuna colpa se qualche albanese prima di me aveva rubato o commesso qualche crimine. Poi ho iniziato a capire che non valeva la pena stare male. Da dove veniamo non c’entra niente, sono le nostre azioni a definirci come persone.

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