Jacopo Zanchini, vicedirettore di Internazionale, 11 aprile 2019
Il 24 marzo 2019 il presidente della Serbia Aleksandar Vučić si è commosso fino alle lacrime ricordando nella città di Niš il bombardamento della Nato di vent’anni prima contro il suo paese. Era con un ufficiale dell’esercito rimasto invalido in quel conflitto. Il 24 marzo del 1999 cominciarono infatti i bombardamenti dell’Alleanza atlantica contro la Jugoslavia guidata da Slobodan Milošević, durati 78 giorni. Il paese, di cui ormai facevano parte solo le due repubbliche di Serbia e Montenegro, portava ancora il nome di quella che, tra il 1945 e gli anni novanta, era stata la repubblica di Tito. La federazione si era disintegrata a causa del tentativo del nazionalismo serbo di imporre la sua egemonia alle altre repubbliche. L’attuale presidente della Serbia Vučić oggi è considerato dall’Europa un pilastro per la stabilità del paese (nonostante le tante manifestazioni di questi mesi dei suoi cittadini, che lo vedono come un leader autoritario), nel marzo del 1999 era il ministro ultranazionalista dell’informazione proprio di Milošević. “Il malefico, terribile, sovversivo e codardo attacco dell’esercito della Nato contro la Serbia e la Jugoslavia”, dichiarò quel giorno del 1999 Vučić, non ancora trentenne, “è la prova delle politiche neonaziste degli Stati Uniti e dei loro satelliti. La Serbia si difenderà contro gli aggressori e sconfiggerà il nemico”.
Ma in occasione del ventesimo anniversario, oltre alle lacrime di Vučić, ci sono state in Serbia anche altre manifestazioni, come quelle di alcune decine di attivisti serbi che hanno voluto ricordare le migliaia di vittime civili tra gli albanesi del Kosovo in quel conflitto, circa diecimila, con una commemorazione nel centro della capitale Belgrado.
Il bombardamento della Nato sulla piccola Jugoslavia di Milošević fu solo l’ultimo dei conflitti nei Balcani degli anni novanta. Dal 1991 si combatté prima – anche se blandamente – in Slovenia, poi fu la volta di una guerra sanguinosa in Croazia e infine in Bosnia Erzegovina, un conflitto lungo più di tre anni (dal 1992 alla fine del 1995), che provocò almeno centomila morti e due milioni di profughi. Alla fine arrivò il conflitto in Kosovo, nel 1998, che provocò l’intervento occidentale nel marzo del 1999.
Ma in realtà il decennio di guerra in Jugoslavia era cominciato proprio in Kosovo. Da quella provincia meridionale della Serbia, abitata in maggioranza da albanesi, era cominciata l’ascesa del burocrate comunista Slobodan Milošević, che aveva deciso di interpretare i sogni di egemonia della comunità più popolosa della Jugoslavia, i serbi, e di costruirci sopra una carriera politica fondata sul nazionalismo. Il discorso di Milošević del 1989, a Kosovo Polje (Piana dei merli), per celebrare il seicentesimo anniversario della sconfitta contro i turchi del principe serbo Lazar, di fronte a un milione di serbi accorsi da tutto il paese, annunciava già delle “battaglie”, proprio in un periodo di crescente tensione tra serbi e albanesi che vivevano nella provincia. “Sei secoli dopo, oggi, siamo ancora coinvolti in nuove battaglie. Non sono ancora conflitti armati, sebbene queste cose non possano essere ancora escluse”, disse Milošević di fronte a una folla acclamante.
Ma perché la dissoluzione della Jugoslavia cominciò proprio in questa provincia?
In Kosovo gli albanesi erano circa un milione e 600mila e i serbi circa duecentomila. Dopo decenni di dominio dei serbi nella pubblica amministrazione, già dal 1968 il presidente Tito aveva deciso di allentare la tensione sulla provincia e di garantirle maggiore autonomia a livello culturale, amministrativo e linguistico. Il processo aveva portato alla costituzione del 1974, che riconosceva, oltre alle sei repubbliche della Jugoslavia, due province autonome all’interno della Serbia: il Kosovo e la Vojvodina. Ma questa concessione di Tito aveva aumentato i timori dei serbi, che si ritrovavano in minoranza in una provincia dove consideravano che ci fossero le radici della loro cultura, anche simboliche (rappresentate dalla Piana dei merli e dai monasteri ortodossi) e che consideravano “terra santa e culla della loro nazione” (come scrive Jože Pirjevec in Le guerre jugoslave).
Il meccanismo impazzito
Ma quando Slobodan Milošević e la leadership politica e militare di Belgrado decisero di affrontare le tensioni nate dopo la morte di Tito (nel 1980) tra le repubbliche della Jugoslavia e la grave crisi economica che attraversava il paese cercando di imporre il potere della Serbia e alimentando il nazionalismo (sia dei serbi che vivevano in Serbia sia di quelli nelle altre repubbliche e province della Jugoslavia, cioè in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo), simbolicamente dovevano quindi cominciare dalla provincia a maggioranza albanese. Fu così che dai primi anni ottanta si mise “in moto un meccanismo impazzito in cui l’aggressivo nazionalismo serbo alimentava le voglie indipendentiste dei croati e degli sloveni, che a loro volta davano nuovo alimento alle paure dei serbi di vedere il proprio popolo smembrato in tre indipendenti entità statali”, scrive Pirjevec.
Nel marzo del 1989 l’autonomia del Kosovo voluta da Tito fu di fatto sospesa da Milošević (di diritto lo fu nel settembre del 1990). Centinaia di decreti privarono gli albanesi della provincia non solo dell’autonomia, ma anche di gran parte dei loro diritti, a partire da quello di usare la loro lingua madre. Perquisizioni, arresti di massa e torture divennero realtà quotidiane. Molti kosovari emigrarono, mentre altri organizzarono un sistema scolastico ed educativo parallelo e clandestino nella loro lingua e una resistenza passiva e non violenta alla repressione voluta da Belgrado. Fu la strategia di Milošević sul Kosovo a convincere la Slovenia e la Croazia che non si poteva trattare con la leadership serba e a intraprendere la strada verso l’indipendenza. In questo clima il Kosovo assisté impotente alle guerre jugoslave, mentre Ibrahim Rugova si imponeva come leader politico pacifico nella provincia (fu infatti solo nel 1996 che cominciò le sue attività il gruppo guerrigliero dell’Uçk, che avrà poi un ruolo importante nelle vicende della guerra della Nato).
Capire qual è stato il ruolo del Kosovo nella fine violenta della Jugoslavia aiuta anche a capire gli altri conflitti degli anni novanta, il loro epilogo e anche alcune delle ragioni dell’intervento della comunità internazionale in quella guerra. I 78 giorni di bombardamenti da parte della Nato sulla Jugoslavia di Milošević, quindi, vanno inseriti in questo contesto. Quell’intervento può essere legittimamente considerato sbagliato, controproducente, persino criminale, moralmente o giuridicamente ingiustificabile, oppure inadeguato da un punto di vista militare – la scelta della guerra aerea peggiorò oggettivamente la situazione dei civili sul terreno – ma il contesto non va dimenticato.
Il dibattito in Italia
Non è quello che è successo in Italia quando il quotidiano il Manifesto ha dedicato otto pagine di un supplemento speciale al ventesimo anniversario del bombardamento della Nato, “Il cielo sopra Belgrado”, uscito nel numero del 22 marzo. Se nella capitale della Serbia negli stessi giorni venivano ricordate da pacifisti e democratici serbi le vittime civili albanesi della repressione di Milošević, sul Manifesto di quelle vittime non c’era traccia. Nonostante oggi si abbiano un’infinita quantità di documenti su quanto accaduto e decine di processi al Tribunale dell’Aja che aiutano a ricostruire le responsabilità dei singoli dirigenti.
L’editoriale di Luciana Castellina, in prima pagina, è intitolato “I frutti avvelenati di quella prima volta” e sui bombardamenti della Nato vi si legge che fu: “La prima guerra che si è combattuta sul suolo europeo dalla fine del conflitto mondiale”. L’affermazione è particolarmente paradossale, trattandosi di Balcani, dove pochi anni prima si è assistito alla guerra in Croazia, con l’assedio e la conquista di Vukovar, e alla guerra in Bosnia Erzegovina, all’assedio sanguinoso di città come Sarajevo (che fu colpita anche con bombe d’aereo, modificate per essere lanciate dall’artiglieria), Tuzla, Zepa, Bihać, con popolazioni ridotte alla fame, fino allo sterminio, riconosciuto come atto di genocidio, di ottomila uomini e ragazzi bosniaci musulmani disarmati dopo la caduta di Srebrenica.
“È la prima volta che con tanta spudoratezza si è proceduto ad una applicazione selettiva dei diritti”, continua Castellina, “in questo caso quello dell’autodeterminazione dei popoli, riconosciuto in Europa ai soli kosovari”. Anche qui si prescinde completamente dal contesto jugoslavo e internazionale. La Jugoslavia era una repubblica federale composta da sei repubbliche, che in base alla costituzione del 1974 avevano anche diritto di secessione e autodeterminazione. Il Kosovo non era una repubblica, ma una provincia, è vero, ma non lo era anche per questioni più politiche che giuridiche (gli albanesi del Kosovo erano visti come “fratelli” di quelli oltreconfine, e quindi sospetti). I kosovari a più riprese avevano chiesto di essere riconosciuti come repubblica, essendo più numerosi dei montenegrini e più o meno quanto gli sloveni. È chiaro quindi che la questione del Kosovo è estremamente complessa, e lo diventa ancora di più dopo le altre guerre balcaniche e dopo dieci anni di violenta apartheid imposta da Milošević sulla provincia. Nessuna delle potenze coinvolte nel conflitto del 1999 avrebbe voluto l’indipendenza del Kosovo, né i paesi europei né gli Stati Uniti. Furono la guerra e la pulizia etnica, e gli spaventosi massacri accaduti in Kosovo tra il 1998 e il 1999, a dare legittimità a un’indipendenza che nessuno – a parte i nazionalisti albanesi – pretendeva come esito del conflitto. Prova ne sia che neppure gli accordi di Kumanovo del 1999, firmati alla fine della guerra della Nato contro la Jugoslavia, prevedevano l’indipendenza del Kosovo. Ma chi avrebbe potuto obbligare i kosovari a vivere sotto il giogo di Belgrado dopo dieci anni di apartheid e repressione, e un anno di spaventosi massacri e pulizia etnica, quando tutte le repubbliche jugoslave, incluso il piccolo Montenegro, nel frattempo erano diventate indipendenti o lo sarebbero diventate a breve?
Non è qui il caso di ricostruire nel dettaglio la storia di quegli anni, ma ragionare su alcuni fatti fondamentali. Da quando era comparsa l’Uçk e da quando i suoi membri avevano cominciato a compiere atti di guerriglia principalmente contro le forze di sicurezza serbe – senza disdegnare azioni contro i civili serbi e i presunti “collaborazionisti” –, la repressione delle autorità serbe in Kosovo si era fatta ancora più violenta e indiscriminata.
Scrive Castellina: “Il grosso degli incidenti (sic) si verificò dopo l’inizio del bombardamenti della Nato e non prima, e non può dunque essere invocato a giustificazione dell’intervento”. Ma per avere un’idea della gravità della crisi e dei metodi delle forze di sicurezza serbe già un anno prima dell’intervento della Nato, basta leggere quello che scrive Human rights watch su un unico episodio del 1998 (a titolo di esempio) e poi prendere le cifre dei profughi e sfollati in Kosovo nel 1998 e 1999.
“(…) Il governo serbo lanciò un massiccio assalto alla valle centrale di Drenica, una roccaforte dell’Uçk. Il 28 febbraio e il 1 marzo 1998, in risposta alle imboscate dell’Uçk alla polizia, le forze speciali hanno attaccato due villaggi vicini, Ćirez (Çirez) e Likošane (Likoshan). Il 5 marzo forze speciali della polizia hanno attaccato il vicino villaggio di Prekaz, luogo di residenza di Adem Jashari, un noto membro dell’Uçk. Jashari fu ucciso con tutta la sua famiglia, salvo una bambina di undici anni. In totale, ottantatré persone persero la vita nei tre attacchi, tra cui almeno ventiquattro donne e bambini”. E prosegue il rapporto di Human rights watch: “Gli abusi successivi al 20 marzo 1999 sono stati la continuazione e l’intensificazione degli attacchi a civili, sfollamenti e distruzione di proprietà civili compiute dalle forze di sicurezza serbe e jugoslave nel 1998 e nei primi mesi del 1999. (…) Entro marzo del 1999, la combinazione di combattimenti e di attacchi contro i civili aveva lasciato circa 1.500-2.000 civili e combattenti morti. (…) Migliaia di villaggi abitati da albanesi in Kosovo erano stati in parte o completamente distrutti da incendi o bombardamenti”. Questa era quindi la situazione prima dell’attacco della Nato, e si può seguire l’esodo della popolazione civile all’interno del Kosovo e verso i paesi vicini di settimana in settimana con l’aiuto delle tabelle dell’Unhcr.
Per avere un’idea dell’avanzare della crisi umanitaria, questi sono i dati assoluti.
Quindi, analizzando i dati di profughi e sfollati, è giustificato affermare che ci fosse una grave emergenza umanitaria in Kosovo, provocata da una violenta offensiva indiscriminata delle forze serbe, come reazione sproporzionata alle azioni di guerriglia dell’Uçk. E che questa offensiva continuò e si aggravò durante tutto il 1998, mentre si moltiplicavano gli avvertimenti della comunità internazionale a Milošević e le trattative per cercare di fermare un conflitto che ogni giorno cresceva di intensità. Tommaso Di Francesco scrive sul manifesto che “fino al 24 marzo c’erano vittime e profughi da una parte e dall’altra”. Ma bisogna considerare che da parte albanese c’erano circa duemila morti e che la stragrande maggioranza dei 349.500 profughi e sfollati censiti dall’Unhcr nel giorno in cui cominciarono i bombardamenti erano kosovari albanesi. E che l’emergenza umanitaria minacciava la stabilità e la tenuta dei paesi vicini (in particolare la Macedonia, dove c’era una forte minoranza albanese, e l’Albania, entrambi paesi non in grado di sostenere un così forte afflusso di profughi per ragioni politiche, economiche e sociali).
Dopo l’inizio dei bombardamenti
Il giorno del ventesimo anniversario dell’attacco della Nato il giornalista serbo-bosniaco Dinko Gruhonjić sul giornale online serbo Autonomija, ha criticato il modo in cui sono stati ricordati gli eventi: “Nessuno [in Serbia] ha evocato le cause dei bombardamenti, tranne qualche raro partito politico e qualche ancora più rara ong. Ora, il 24 marzo 1999 non ha solamente segnato l’inizio dei bombardamenti della Nato. È anche il giorno in cui la pulizia etnica già incominciata dallo stato serbo in Kosovo ha preso la forma di operazioni violente sistematiche contro gli albanesi del Kosovo, condotte dall’esercito e dalla polizia serbi, forti della loro sanguinosa esperienza in Croazia e in Bosnia Erzegovina”. E ovviamente, una volta cominciati i bombardamenti della Nato, la situazione ha preso una piega apocalittica per i kosovari.
Nella sua principale sentenza sul Kosovo, risalente al 2009, il Tribunale penale internazionale dell’Aja ha condannato a fortissime pene detentive i vertici politici e militari della Serbia dell’epoca per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Cinque imputati su sei furono condannati per la campagna di terrore e violenza diretta contro gli albanesi del Kosovo nella prima parte del 1999. La corte ha ricostruito “deportazioni, omicidi e persecuzioni”, stupri di massa e distruzione intenzionale dei luoghi di culto. La campagna fu condotta dall’esercito e dalle forze speciali del ministero dell’interno (Mup) della Serbia. Furono “azioni deliberate che causarono la cacciata di 700mila albanesi dal Kosovo nel breve periodo tra la fine di marzo e l’inizio di giugno del 1999”, ha detto il giudice Iain Bonomy in aula alla fine del processo all’Aja. Ognuno degli accusati è colpevole di aver partecipato a un’impresa criminale “il cui obiettivo era modificare la composizione etnica del Kosovo per continuare ad assicurarne il controllo alle autorità serbe”, si legge nella sentenza. L’obiettivo era “usare il terrore per spingere un significativo numero di albanesi al di fuori delle loro case e oltre confine, per fare in modo che le autorità statali potessero mantenere il controllo sul Kosovo”.
Per avere un’idea di cosa sia stata l’espulsione attraverso il terrore di quasi metà della popolazione del Kosovo si possono vedere i dati dell’Unhcr sugli sfollati all’interno della provincia e su quanti arrivarono nei paesi vicini giorno per giorno, in quei mesi della primavera di vent’anni fa.
Nonostante l’espulsione e la deportazione di almeno 800mila kosovari albanesi Luciana Castellina scrive che “i profughi serbi erano la maggioranza”, come “persino il ministro degli esteri Dini ammise”. Tommaso di Francesco invece scrive: “Così, con i raid aerei, si volevano salvare i profughi albanesi in fuga?”. E poi aggiunge: “Profughi che fuggivano non solo per il timore delle milizie serbe, ma (…) anche perché terrorizzati dai raid della Nato. E avevano ragione, perché centinaia di loro furono letteralmente inceneriti dai missili ‘intelligenti’”.
“Non è bello conteggiare le vittime per stabilire chi ne abbia avute di più”, aggiunge Luciana Castellina, “anche perché brutalità insensate furono commesse da entrambe le parti”. Solo che oggi abbiamo una lista delle vittime di quella guerra, con nomi e cognomi. Si chiama Kosovo memory book ed è stato creato dal Humanitarian law centre di Belgrado e da quello di Pristina. “La banca dati dice che 8.661 civili albanesi del Kosovo furono uccisi o scomparvero, come 1.797 serbi e 447 rom, bosniaci e altri non albanesi” (se si contano anche i combattenti, la lista include invece 10.415 albanesi, 2.197 serbi e 528 tra rom, bosniaci e altri non albanesi).
Anche la guerriglia albanese dell’Uçk commise eccidi di civili serbi (le vittime di questi crimini prima dell’intervento della Nato sono calcolate in un centinaio). Lo Humanitarian law centre ha invece pubblicato già nel 2014 i dettagli sulle vittime del bombardamento della Nato: 754 morti, di cui 454 civili e 300 membri di forze armate. Tra i civili, 207 erano di nazionalità serba e montenegrina, 219 albanesi, 14 rom e 14 di altre nazionalità. Mentre 260 persone sono state uccise in Serbia, dieci in Montenegro e 484 in Kosovo.
Le prove dei crimini
Ma quali sono state le ragioni di questo piano delirante di espulsione di massa della popolazione albanese del Kosovo, a parte il nazionalismo efferato, l’odio razzista e la vendetta contro chi “causava” ai serbi l’attacco della comunità internazionale? “Una teoria credibile è che Belgrado intendesse modificare in modo permanente la composizione demografica del Kosovo espellendo una grande percentuale di albanesi kosovari, una strategia che a volte era stata proposta dall’estrema destra serba, e anche dal vice primo ministro serbo dell’epoca e leader del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj”, scrive Human rights watch. “Questa spiegazione è supportata dai vari resoconti dei rifugiati che arrivano in Albania e si vedono confiscare e distruggere i documenti di identità e rimuovere le targhe dalle auto alla frontiera. Questa cosiddetta ‘pulizia dell’identità’, documentata da Human rights watch e da altre organizzazioni che raccolgono testimonianze in Albania, suggerisce con forza un tentativo di Belgrado di privare gli albanesi del Kosovo della loro cittadinanza e di frustrare i futuri sforzi per tornare a casa”.
Al di là delle fredde definizioni del tribunale e delle nude cifre, per avere un’idea di cosa accadde in Kosovo dopo il 24 marzo 1999, si può leggere il ricordo di alcuni sopravvissuti al massacro di Pastasel/Pusto Selo, dove il 31 marzo di quell’anno 109 kosovari albanesi furono sterminati a sangue freddo dall’esercito e dalla polizia della Serbia, con l’aiuto dei paramilitari. È un esempio, tra i tanti crimini accertati, per i quali nel 2009 sono stati condannati i militari e dirigenti serbi Vladimir Lazarević, Vlastimir Đorđević, Nebojša Pavković e Sreten Lukić dal Tribunale penale per la ex Jugoslavia.
Non solo. Durante questa offensiva militare partì anche un’operazione parallela per occultare le prove dei crimini commessi: “Dal 2001, sono state rinvenute in quattro località in Serbia fosse comuni contenenti i corpi di 941 albanesi del Kosovo, principalmente civili uccisi al di fuori di situazioni di combattimento in Kosovo nel 1999. 744 corpi di albanesi del Kosovo sono stati scoperti a Batajnica, alla periferia di Belgrado, almeno a 61 a Petrovo Selo e 84 presso il lago Perućac. Almeno 52 corpi sono stati successivamente trovati nella fossa comune di Rudnica”, racconta l’Humanitarian law center di Belgrado. L’operazione per distruggere le prove era pianificata ai più alti livelli politici e militari di Belgrado. Vlastimir Đorđević, ex vice ministro degli interni della Serbia è stato condannato a 18 anni di carcere dal tribunale dell’Aja per vari crimini, tra cui aver organizzato il trasporto in Serbia con dei camion frigoriferi dei corpi delle vittime uccise durante il conflitto in Kosovo. Đorđević ha confessato i suoi crimini. Quando parliamo del Tribunale dell’Aja, dobbiamo considerare una cosa: si tratta di sentenze penali, che quindi ricostruiscono nel dettaglio le colpe dei singoli imputati in singoli episodi criminali. Occuparsi delle guerre dei Balcani senza tener conto di questo prezioso materiale significa rinunciare a capire come si sono svolti i fatti.
Il prezzo del nazionalismo etnico
Una riflessione merita di essere fatta sul prezzo del nazionalismo e della guerra pagato dalle popolazioni civili. È evidente che anche i serbi hanno sofferto nei conflitti dei Balcani e che anche contro di loro sono stati commessi dei crimini. E, cosa ancora più grave, che alcune loro comunità sono state cancellate per sempre da luoghi in cui vivevano da secoli e che, alla fine delle guerre, la Serbia è stato il paese della regione che ha accolto il maggior numero di profughi dagli stati vicini. Questo è stato il prezzo della guerra, voluta dai nazionalisti serbi, dall’esercito jugoslavo e dalla leadership di Belgrado (e poi anche dai nazionalisti croati e albanesi), il frutto della scelta di armare le minoranze serbe in Croazia e in Bosnia e le comunità serbe in Kosovo, della creazione delle milizie e delle repubbliche serbe autoproclamate in Krajina (nella parte della Croazia occupata dai serbi) e in Bosnia.
“Gli elementi dell’Uçk sono anche responsabili di attacchi postbellici a serbi, rom e altri non albanesi, nonché a rivali politici di etnia albanese. Subito dopo l’arrivo della Nato in Kosovo, ci fu un vasto e sistematico rogo e saccheggio di case appartenenti a serbi, rom e altre minoranze e la distruzione di chiese e monasteri ortodossi”, scrive Human rights watch. “Questa distruzione è stata combinata con molestie e intimidazioni progettate per costringere le persone a fuggire dalle loro case e comunità. Alla fine del 2000 più di 210mila serbi erano fuggiti dalla provincia; la maggior parte di loro è andata via nelle prime sei settimane dello schieramento della Nato”. E continua: “Dal 12 giugno 1999 sono stati assassinati o scomparsi un migliaio di serbi e Rom. Le bande criminali o gli individui vendicativi possono essere stati coinvolti in alcuni incidenti dalla guerra. Ma elementi dell’Uçk sono chiaramente responsabili di molti di questi crimini. Il desiderio di vendetta fornisce una spiegazione parziale, ma c’è anche un chiaro obiettivo politico in molti di questi attacchi: la rimozione dal Kosovo delle persone di etnia non albanese al fine di giustificare meglio uno stato indipendente”.
La logica della pulizia etnica e del nazionalismo etnico è inesorabile. Imporla agli altri significa in qualche modo giustificarla e considerarla legittima, fino a che non si ritorce contro chi l’ha promossa. I serbi in Kosovo prima della guerra erano circa 200mila. Oggi è difficile stabilire quanti siano – perché il censimento del 2011 è stato boicottato da gran parte della minoranza serba –, ma secondo le stime si calcola che siano tra centomila e 130mila persone, sui circa duecentomila di prima della guerra. Una vicenda simile è avvenuta anche durante la guerra in Croazia, con la creazione e poi la fine dello staterello secessionista dei serbi di Croazia, la cosiddetta repubblica serba di Krajina, fondata sulla cacciata dei croati dal territorio. Il risultato finale è stato che, dopo il conflitto, la minoranza serba nel paese è passata dal 12,2 per cento della popolazione del 1991 al 4,3 per cento del 2011.
“Io non amo quello che chiamo il masochismo della sinistra europea”, ha spiegato al festival Libri come di Roma il filosofo marxista sloveno Slavoj Žižek. “Tante persone di sinistra si sentono così colpevoli che pensano che qualsiasi cosa succede di male nei paesi in via di sviluppo deve per forza essere un effetto derivato dal colonialismo europeo”. E ha raccontato di una sua amica militante di sinistra radicale africana che, riferendosi al genocidio in Ruanda e alle colpe del colonialismo europeo, gli aveva detto: “Questi europei di sinistra radicale sono così razzisti che pensano che noi africani siamo così simili a dei bambini che non possiamo neanche essere davvero cattivi? Invece ti assicuro che anche noi sappiamo essere molto cattivi, senza l’aiuto di nessuno”.
Analogamente potremmo dire che c’è una sinistra radicale intellettuale e giornalistica in Europa che vede il male solamente quando c’è di mezzo l’occidente, o ci sono di mezzo gli Stati Uniti e i loro interessi. Perdendo l’occasione di un dibattito serio e approfondito sul tema dei diritti umani, della protezione delle popolazioni civili e degli interventi internazionali – definitivamente messi in crisi dalla guerra in Iraq nel 2003 – ma che non ha certamente perso di attualità in questi ultimi anni, come dimostrano i casi drammatici della Siria e della Birmania, solo per fare due esempi.
Il razzismo e il sovranismo di oggi
Purtroppo è uno strabismo antico. Però sarebbe forse utile ragionare su come questo tipo di interpretazioni e di letture della storia recente si riflettano sull’Europa e sull’occidente di oggi, una realtà in cui tornano il nazionalismo etnico, il razzismo, l’intolleranza, l’antisemitismo e l’islamofobia. Edin Hajdarpašić insegna storia dell’Europa moderna alla Loyola university di Chicago. Ha scritto Whose Bosnia? Nationalism and political imagination in the Balkans, 1840-1914.
È arrivato negli Stati Uniti dalla Bosnia Erzegovina, in fuga dalla guerra, quando aveva 16 anni. E racconta il suo sconcerto quando, parlando del suo paese con gli amici americani, li vedeva convinti che nulla di simile sarebbe potuto accadere negli Stati Uniti. Lui cercava di spiegare che anche in Bosnia nessuno si aspettava che il leader politico dei serbi di Bosnia Radovan Karadžić, “poeta ridicolmente scarso e psichiatra ossessionato dal vittimismo serbo, prendesse tanti voti alle elezioni, per non parlare del fatto di riuscire a organizzare un movimento dedito al genocidio e alla purezza etnica. Eppure è quello che è successo in meno di un decennio”.
“Per Anders Breivik, il terrorista norvegese che ha ucciso 77 persone in un attacco del 2011, Karadžić non era solo un altro crociato di un lontano passato, ma un idolo vivente, qualcuno che avrebbe voluto incontrare”, scrive Hajdarpašić. “Brenton Tarrant, l’autore del massacro in Nuova Zelanda, ha anche lui reso omaggio a Karadžić insieme ad altri ‘difensori’ cristiani dell’Europa contro un’ondata di musulmani e più in generale di ‘immigrati’ non bianchi. Come Breivik, Tarrant ha usato una parte significativa del suo manifesto programmatico per ripercorrere e aggiornare le fantasie di Karadžić, dalla minaccia demografica musulmana alla necessità di una violenza preventiva contro gli ‘invasori’ non bianchi. (…) Online e nella vita reale, ha trovato una coorte globale di alleati che ha entusiasmato con le sue fantasie violente”. Questo perché “lungi dall’avere origini in un solo paese, la storia di questi movimenti estremisti ci mostra che prosperano sulla connettività globale e sull’imitazione reciproca”.
“Comprendere l’attrazione contemporanea del nazionalismo e della supremazia bianca come problemi inestricabilmente collegati è essenziale per qualsiasi tentativo di sconfiggere questi movimenti”, conclude Hajdarpašić. “In altre parole, dobbiamo resistere al confortante ma falso pensiero che le ideologie violente dietro agli omicidi di massa rimarranno solo in Nuova Zelanda, in Bosnia o da qualche parte ‘là’. Sono già qui”./Internazionale.it