È un tema spesso controverso e molto politicizzato quello della minoranza greca nel sud dell’Albania. Il punto di vista di uno storico
Di Ylber Marku, Osservatorio Balcani
Ho recentemente letto su questo sito l’articolo “Greci d’Albania” a firma di Gilda Lyghounis e, da storico, ritengo siano necessari alcuni approfondimenti e precisazioni su un tema alquanto delicato, che ha molto da raccontare sui nazionalismi ancora attivi e pericolosi in Europa.
In questo articolo si afferma con una superficialità disarmante che nel 1991 la minoranza greca in Albania consisteva di circa 300 mila persone, e che di queste oggi ne sarebbero rimaste 150 mila. Si tratta di stime senza riscontro, in contrasto con i dati ufficiali che si possono leggere nei censimenti condotti dallo stato albanese nell’ultimo secolo, e che qui risintetizzo a favore dei lettori di OBC Transeuropa (una categoria cui anche io appartengo).
Sin dalla sua nascita (1912), e in linea con gli standard internazionali, lo stato albanese ha adottato come criterio per l’identificazione della nazionalità dei suoi cittadini quello della cultura, con elemento base la lingua. Seguendo questo criterio, il primo censimento della minoranza greca in Albania si svolse nel 1923 (in conformità con le linee guida dell’allora Lega delle Nazioni) e ne quantificò la presenza intorno alle 25 mila persone. Il censimento che si svolse al termine della Seconda guerra mondiale, nel settembre 1945, rilevò una presenza di 36.338 persone (anche in questo caso venne usato un formulario in linea con gli standard internazionali sulle statistiche all’epoca codificate da varie Conferenze internazionali, tenutesi a Bruxelles, Parigi, Madrid, e altrove). Nel dopoguerra lo Stato albanese promosse altri censimenti. L’ultimo promosso dal regime comunista risale al 1989 e attesta una presenza della minoranza greca in Albania intorno alle 59 mila persone. È curioso notare che in quest’ultimo si dichiararono greci anche alcuni nuclei familiari residenti nel profondo nord (Kukes, Tropoje). Si trattava di persone effettivamente provenienti dalle zone di minoranza greca del sud, che al momento del censimento si trovavano al nord su indicazione delle autorità, per svolgere varie funzioni (tra cui quella di insegnante) – un indizio a favore dell’attendibilità del censimento, o che quantomeno ci induce a credere che questo non venne promosso con l’intento di ridurre il numero degli appartenenti alla minoranza greca, altrimenti dei «greci del nord» il regime di Hoxha non avrebbe lasciato traccia sui documenti.
L’ultimo censimento dello Stato albanese risale al 2011. In questo caso, su raccomandazione del Consiglio d’Europa, le dichiarazioni di etnia sono avvenute su base volontaria: non più su un criterio prima ritenuto oggettivo quale la madrelingua, ma su basi soggettive; in buona sostanza, ognuno ha potuto dichiararsi per “come si sentiva”. In questa occasione poco meno di 15 mila persone si sono dichiarate appartenenti alla minoranza greca: un dato problematico, perché per le stesse autorità albanesi i greci in Albania sono almeno il doppio (non a caso il censimento è stato fortemente criticato sia da alcuni partiti politici ad Atene sia dai rappresentanti della minoranza greca in Albania). Insomma, pare che nessuno sia interessato a confrontare la verità dei numeri, preferendo quelli speculativi, utili da usare da ambo le parti nello scacchiere dei confronti nazionalistici che danneggiano innanzitutto proprio la minoranza.
In sintesi, carte alla mano si può affermare che da quando l’Albania esiste i greci in Albania non hanno mai superato le 60.000 unità. Certo questo lo affermo sulla base di documenti che sarebbe sbagliato confondere con «la verità assoluta», poiché tutti i censimenti hanno dei limiti, legati al metodo con cui si sceglie di condurli e alle epoche storiche in cui vengono effettuati, ma affermare un numero conoscendo le carte, i numeri e i criteri con cui questi numeri sono stati estratti è comunque meglio che dare dei numeri a sentimento.
I numeri del nazionalismo greco
Come spiegare, quindi, i numeri citati nell’articolo “Greci d’Albania”? Sebbene l’autrice non espliciti la fonte, è facile far risalire cifre così esagerate al periodo della fondazione della Grecia indipendente. L’Impero Ottomano, del quale la Grecia ha fatto parte per circa 4 secoli, nei suoi censimenti divideva la popolazione in gruppi di fede, e non di etnia. A seguito dell’indipendenza della Grecia, in un momento in cui incombeva l’esigenza di costruire un’identità nazionale, la Chiesa ortodossa riuscì ad imporre l’equiparazione tra religione e nazionalità. All’indomani dell’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano, Ioannis Capodistria, che all’epoca era alla guida del paese, identificò come greci tutti quelli di fede cristiano ortodossa. Non solo: verso tutte le minoranze in Grecia, si intraprese una politica di assimilazione o annientamento. È questo contesto che in seguito portò al Trattato di Losanna (1923) e agli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia: decine di migliaia di musulmani, migliaia dei quali albanesi strumentalmente considerati turchi, furono deportati in Turchia, in cambio di decine di migliaia di greci che da secoli vivevano in Turchia, deportati in Grecia.
Il governo greco per fortuna da quasi un secolo si è distanziato dalle idee del nazionalismo otto-novecentesco. Ma non i circoli dell’estrema destra secondo i quali tutti i cristiano-ortodossi dell’Albania meridionale sono greci. Purtroppo alcuni pensatori greci, per fortuna sempre più in minoranza, si sforzano di portare avanti, con il forte sostegno di alcuni circoli estremisti della chiesa ortodossa, l’idea che la Grecia moderna è una continuazione (in miniatura) dell’Impero Bizantino. Un’idea del tutto fuorviante perché l’Impero Bizantino non era un impero della Magna Grecia. Chi studia la storia sa che quell’impero, come tutti gli imperi che hanno governato questa parte del mondo, era uno stato multinazionale. Di qui la contraddizione in termini nell’idea di uno stato nazionale che si vuole erigere ad erede dell’impero multinazionale che lo ha preceduto.
Le relazioni Albania-Grecia secondo gli storici
Ma al di là delle faide politiche qual è invece una verità storica attestabile sui rapporti storici tra greci e albanesi? Nonostante le difficoltà nell’accedere a molti archivi in Grecia, alcuni fatti sulle relazioni tra greci e albanesi sono stati indagati da studiosi greci (e anche albanesi) molto seri. La professoressa Maria Efthymiou, per esempio, spiega nei suoi studi le interazioni e le varie reciproche influenze culturali tra gli albanesi e i greci, i quali generalmente hanno pacificamente convissuto tra di loro prima sotto l’Impero Bizantino e poi quello Ottomano. Non solo, Efthymiou ci dice che in Grecia vi era un cospicuo numero di albanesi (arvanites), sparsi un po’’ ovunque tra l’odierno confine con l’Albania e il Peloponneso. Questi vissero in quelle zone per secoli, e furono chiamati, dice la Efthymiou, prima dagli aristocratici locali sin dai tempi dell’Impero Romano, poi soprattutto da quello Bizantino come ausilio di difesa dalle invasioni straniere, e infine dall’Impero Ottomano, sempre per ragioni strategiche. Altri storici, tra i quali alcuni greci, ma anche britannici e tedeschi, ci dicono che, sebbene alcuni di questi, in qualità di funzionari e militari Ottomani, abbiano osteggiato l’indipendenza nazionale greca macchiandosi anche di crimini (ricordo qui il massacro perpetrato dall’esercito Ottomano a Chios), tanti albanesi di inizio Ottocento furono tra i più importanti condottieri nella lotta per l’indipendenza greca.
Per coloro che non leggono testi di storia, questi fatti sono stati messi a disposizione di un ampio pubblico in un documentario trasmesso su una delle più importanti reti televisive greche non tanti anni fa, con il titolo “1821: Il Mito Nazionale” (O Ethnikos Mythos). In questo documentario, alcuni storici che lavorano negli atenei greci e nelle università più prestigiose d’Europa, raccontano che a seguito dell’indipendenza nazionale le autorità politiche della Grecia si impegnarono per controllare la narrativa dell’identità nazionale, che in Grecia – come avvenuto del resto anche in Albania – ha cercato, spesso riuscendoci, di cancellare i segni e i lasciti culturali dell’Impero Ottomano, incluse le varie interazioni con il vicino del nord: gli albanesi. Si tratta di fenomeni che, ferme restando le tipicità nazionali, si riscontrano in tutti i paesi usciti indipendenti a seguito del collasso dei grandi imperi europei.
I greci in Albania, oggi
Se questo è il quadro storico, veniamo ai greci d’Albania e al loro stato oggi. Rifacendosi all’attualità, l’articolo di Lyghounis ci presenta un ragazzo greco che afferma che suo padre fu imprigionato e inviato ai lavori forzati dal regime comunista albanese in quanto parlava greco, suggerendo l’idea che il regime comunista albanese perseguitasse i greci d’Albania in quanto greci. Sebbene la triste vicenda personale non può essere messa in discussione, in senso generale la minoranza greca visse la stessa tragica esperienza della maggioranza albanese sotto la dittatura di Hoxha. Rispetto alle minoranze, semmai la documentazione storica evidenzia come il regime comunista albanese sia stato interessato a che le minoranze godessero dei diritti di minoranza, perché garantivano al regime sicurezza, soprattutto al confine sud. Sappiamo ad esempio che negli anni Sessanta, quando il ministero della Cultura propose al leader del paese Enver Hoxha di interrompere, per ragioni logistiche, la pubblicazione del giornale in lingua greca, Laiko Vima, con la scusa che le minoranze parlavano tutte l’albanese, Hoxha addirittura si arrabbiò, e insistette per il proseguimento della stampa in lingua greca. Se ci furono dei membri della minoranza greca che hanno passato parte della loro vita nelle tremende prigioni del regime dittatoriale albanese, non è dunque per la loro appartenenza etnica e linguistica, ma per ragioni affini a tutte le migliaia di albanesi che furono imprigionati dal più feroce regime comunista d’Europa, e cioè per ragioni politiche che prescindevano dalla loro etnia o cultura
Consultando gli archivi e i dati statistici, è facile rendersi conto che, per esempio, agli studenti provenienti dalla minoranza greca, in rapporto alla loro popolazione, erano riservate più borse di studio all’università in proporzione alla popolazione. Nelle scuole elementari e anche in alcune medie, la lingua albanese era insegnata come seconda lingua. E un discorso simile vale anche per la piramide del potere, che fu aperta ai membri della minoranza greca, con una sola condizione, che era una per tutto il popolo albanese, cioè la totale aderenza ideologica al regime comunista. Complice la provenienza meridionale del dittatore, ci furono molti ministri di provenienza dalla regione minoritaria, e persino capi di stato maggiore dell’esercito e ministri della Difesa.
Dopo il crollo del regime comunista la situazione dei greci in Albania ha sostanzialmente ricalcato il percorso del resto della popolazione. Venendo poi a tempi più recenti, ai problemi con i titoli di proprietà a Himara e dintorni – anch’essi citati nell’articolo “Greci d’Albania” – si tratta evidentemente di un problema generale che affligge la maggior parte della popolazione albanese in uscita dal comunismo. A Himara, presa come esempio emblematico – e che per altro non è nemmeno una zona con una cospicua presenza greca – non si vede nessun disegno finalizzato a cacciare via la popolazione locale attraverso le espropriazioni da parte dello stato. I problemi di Himara rispecchiano semmai i problemi che la maggior parte delle persone in Albania deve affrontare con i titoli di proprietà, e cioè occupazioni abusive della proprietà pubblica, la sovrapposizione delle mappe catastali, e gravi casi di corruzione.
Ha fatto molto scalpore (e infatti nel suo articolo Lyghounis lo ricorda) il caso di Kotsifas, un ragazzo ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia albanese nell’ottobre del 2018. Ritengo sia importante specificare che il ragazzo non è stato ucciso per aver issato la bandiera greca, come la Lyghounis afferma, ma perché si è opposto, sparando, ad un legittimo controllo della polizia. Nell’Albania del sud – ma non solo – è facile vedere bandiere greche issate su case e luoghi pubblici, ben diverse dal vessillo issato quel giorno da Kotsifas, membro di un gruppo di estremisti, se non affiliati sicuramente simpatizzanti del partito fascista Alba Dorata. Questa storia è stata trasmessa anche nei media greci. Se le massime autorità greche, come il ministro degli Esteri, hanno pubblicamente preso le distanze da simili atteggiamenti, non si vede davvero il motivo per alimentare ulteriore polemica.
A conclusione di questi ragionamenti su storia e attualità – che per uno storico come me non sono usuali, e che ho deciso di tentare solo per l’esigenza di fare chiarezza – è bene spendere due parole sul desiderio di alcuni (per fortuna pochi) di vedere Atene porre il veto all’adesione dell’Albania nell’Unione Europea, anche attraverso l’uso strumentale della minoranza greca, utilizzata come strumento di ricatto.
Sin dalla fondazione della Comunità Economica Europea, il progetto europeo è innanzitutto un progetto politico. Come tale, tutti gli allargamenti dell’Unione Europea corrispondevano ad una logica politica e non sono stati atti di benevolenza verso alcuni paesi.
Il governo greco non ha imposto il veto all’Albania in quanto è del tutto controproducente, ma cosa ancora più importante, andrebbe contro due ragioni fondamentali dell’interesse europeo di mantenere i Balcani allineati alle sue politiche.
Primo, vi è il bisogno di fermare la mano divisiva delle grandi potenze in ascesa nel mondo, alcune delle quali vedono con favore l’opportunità di stabilire un piede in uno di questi paesi e sfidare le politiche di Bruxelles.
Secondo, il modello pacificatore imposto proprio dall’Europa a questi paesi, cioè quello delle società multinazionali, è in grave crisi nei Balcani, basti vedere la Bosnia Erzegovina e il Kosovo, perché in molti purtroppo rifiutano una fratellanza tra gruppi etnici che non molto tempo fa hanno cercato di sterminarsi a vicenda, e dove la maggior parte dei responsabili non sono stati portati alla giustizia.
Vi è un’intera disciplina (la Transitional Justice) che spiega quanto sia difficile la giustizia dopo situazioni conflittuali come quelle accadute nei paesi della ex Jugoslavia, e come questa mancanza di giustizia a sua volta inneschi meccanismi collettivi di vittimizzazione e rivendicazioni. Questo rende ancora più urgente la necessità di questi paesi di vedersi inglobati in un progetto con una visione più ampia, appunto come quello dei padri fondatori dell’Europa Unita. Questi ambivano a costruire con piccoli passi un’unione politica del continente con il fine ultimo di sostituire i nazionalismi locali con un nazionalismo pan europeo.
La superficialità – in verità faziosa e rinfocolatrice – con cui troppo spesso si parla del confine greco-albanese dimostra quanto sia urgente per i paesi balcanici il vedersi inglobati nel progetto politico dei padri fondatori dell’Europa Unita.