Di Marco Perduca
Antonio Russo era onesto, intellettualmente e umanamente. Come dicono gli americani “what you see is what you get”: si appassionava per questioni molto più grandi e cercava di suscitare interessi che non fossero passivi voyeurismi ma che potessero attivare reazioni emotive e azioni politiche. In pochissimi lo ricordano o lo sanno ma è anche grazie a lui se Milosevic fu incriminato all’Aia.
Potrebbe bastar questo per ricordare la differenza che passa tra un Radicale giornalista e un giornalista radicale.
Sono passati 20 anni da quando il corpo di Antonio Russo, il reporter di guerra di Radio Radicale, fu trovato poco lontano da Tiblisi il 16 ottobre. Antonio era in Georgia per seguire il conflitto che in Cecenia opponeva Mosca a vari gruppi e bande che erano tornate a usare le armi per separarsi dalla Federazione russa.
La dinamica della morte del giornalista è stata più o meno chiarita negli anni, ma le indagini si sono scontrate con un muro di gomma dal tanfo tipicamente post-sovietico che a oggi ha prodotto molte speculazioni ma nessuna prova degli esecutori materiali e dei mandanti dell’omicidio.
Antonio era un giornalista sui generis, intellettualmente ingenuo e onesto. Talmente per conto suo che non era iscritto all’albo, come tale non poteva che lavorare per Radio Radicale per cui copriva quei conflitti di cui poco si parlava ma che erano tutti frutto di strascichi di un mondo che da conflitti internazionali frutto della cosiddetta Guerra Fredda stava passando a conflitti interni frutto del disgregamento dell’URSS e del vuoto di alleanze e protezioni che questo aveva generato dappertutto nel mondo.
Algeria, Burundi e Ruanda, Ucraina, Colombia e Sarajevo erano stati i luoghi dove Antonio era andato, spesso di sua sponte, per raccontare violenze e soprusi. Nella primavera del 1999 fu l’unico giornalista occidentale a restare in Kosovo durante i bombardamenti della NATO uscendone insieme e migliaia di persone dopo un viaggio infernale su un treno che li portava in salvo in Macedonia.
Con questo passato non poteva che guardare alla Cecenia come “zona calda” da scoprire e coprire. E così fu, o meglio, così tentò di fare, perché entrare in Russia era pressoché impossibile per chi volesse raccontare quegli scontri. Le informazioni, o le incursioni, dovevano avvenire dalla parte meridionale del Caucaso che confinava colle zone di conflitto.
Nel ricordarlo, in vita oltre che in morte, Marco Pannella ci teneva a sottolineare, magari anche a mo’ di monito per chi gli stava intorno, che Antonio Russo era un Radicale giornalista e non un giornalista radicale. Qualcuno che viveva la propria militanza politica per la ricerca di giustizia e libertà recandosi in zone pericolose per raccontare quanto vedeva e sentiva raccontare e per aiutare a individuare le cause e, forse ancor di più, i responsabili dei conflitti causa di migliaia di morti di civili. Proprio come in Cecenia.
In occasione del ventesimo della sua scomparsa, Radio Radicale lo ricorderà con uno speciale che raccoglie le sue corrispondenze tanto puntuali quanto sgangherate. Spesso nelle sue dirette non si faceva problemi a nominare chi riteneva responsabile dei crimini che vedeva commettere.
Questo suo vivere il giornalismo in modo eterodosso era totalmente estraneo alla pratica, purtroppo molto italiana, di propinare le veline di regime che dettagliavano cronache di operazioni di polizia contro gruppi terroristici o feroci separatisti.
Nel 1999 Antonio Russo era stato cruciale per consentire la raccolta di molte informazioni relative al conflitto che opponeva l’esercito serbo a quello per la liberazione del Kosovo (UÇK). Nel 2000 era partito con lo stesso spirito militante per il Mar Nero dove voleva raccogliere prove dell’uso di armi illegali da parte dell’esercito russo per compilare un dossier per il Procuratore del Tribunale dell’Aia per la ex-Jugoslavia per denunciare come le operazioni per difendere l’integrità territoriale della Federazione russa fossero portate avanti contro il diritto penale internazionale e l’ambiente.
La documentazione era quindi duplice: da una parte raccontare gli attacchi, le imboscate, le fughe, le diserzioni, le infiltrazioni e i fondamentalismi che caratterizzavano il conflitto in Cecenia, dall’altra recuperare video, audio e testimonianze dirette per costruire dei capi di imputazione da offrire alla giustizia internazionale – e poco importava se ancora non era entrato in vigore lo Statuto della Corte Penale Internazionale, occorreva raccogliere le prove finché era possibile.
L’ultima volta che ho parlato con Antonio Russo è stato qualche giorno prima quel 16 ottobre 2000, mi aveva chiamato a New York dal suo telefono satellitare per aggiornarmi delle sue ricerche e per ricordarmi che, quando sarebbe rientrato lui dalla Georgia e io dagli USA, avremmo dovuto iniziare a lavorare a un dossier per la Procuratrice Arbour.
La telefonata intercontinentale si concluse con un in bocca al lupo per il voto che due giorni dopo avrebbe opposto il Partito Radicale alla richiesta che la Federazione russa aveva formalmente avanzato al Palazzo di Vetro affinché il PR fosse cacciato dalla sua affiliazione con l’ONU perché vicino alla resistenza separatista cecena.
Antonio non ha visto il successo del suo Partito, e forse il suo Partito non ha sempre saputo far tesoro dei suoi contributi, e non solo perché le prove che stava raccogliendo sono scomparse il giorno in cui è stato ucciso.
Pochi sono i giornalisti che operano come Antonio Russo, quelli che lo fanno spesso non tornano a casa per godere della notorietà del proprio coraggioso lavoro.