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Si scrive ciò che si abita nella propria ombra e oltre la parola

Di Pierfranco Bruni

Cos’altro è la scrittura se non l’ombra del silenzio nel cerchio delle voci che camminano rischiando l’anima sul filo del tempo? Altro? La penombra è una luce sottile che danza cercando la salvezza nella verità. La parola non ha alcuna certezza se non quella di raccontare un indefinibile sconfitta della storia. Si scrive ciò che si possiede. Si scrive ciò che di abita.

Non so se una foglia fa ombra. Immagina che l’ombra sia una foglia. Il resto inventalo! O viaggialo con la consapevolezza del silenzio. L’ombra è una pausa della parola. Della scrittura o forse del pensare. È una pausa della luce. L’ombra distrugge. Porta alla deriva trascinando con sé i taglibdella penombra. Noi siamo in tempo tragico. La luce è il relativismo della speranza. L’ombra è la seduzione della fine.

Il fuoco ha ombra? Luna sì. Io amo l’ombra perché la parola vive nell’accoglienza conturbante del silenzio buio. Il buio ha ombre? L’ombra che scende nell’acqua è diversa di quella che scivola nel giorno. Si può immaginare l’ombra della parola? Si può pensare? Non c’è nulla di materiale o di oggettivo. Si può bruciare? Il fuoco brucia il fuoco con la fiamma. Una alchimia dei sensi in una percezione dello spazio.

L’ombra della candela non ha parola ma alchimia. Accendere un fuoco è creare ombre in una antropologia della terra che arde. Bisogna leggere l’ombra per restituirla non solo ad un immaginario ma per non farla morire. Bisogna fare in modo di non ucciderla e di non permettere che possa suicidarsi. Perché è eterna e infinita.

La ricerca dell’ombra necessaria arriva con le parole perdute nel tempo dello spazio impercettibilmente invasivo. Terribile. A volte imprescindibile e imperscrutabile. Le parole perdute restano parole comunque in un’ombra dell’immaginazione e dell’immaginario. L’ombra ha il fantasma della memoria. Le ombre delle nostre attese restano a raccontare con le parole che hanno l’assenza dell’assurdo…

Vincenzo Cardarelli:

“I ricordi, queste ombre troppo lunghe

del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo”.

Le ombre ritornano vivono insistono e diventano fantasmi. Diventano onde. Acqua. Trasparenza del silenzio o squillo di un telefono. L’ombra è uno squillo di telefono e alla risposta che resta muto. Non ho ancora capito se hanno fragilità nel continuare ad essere.

Tiresia percepiva le ombre. Dopo la percezione soltanto io nulla. Ma cosa racconteremo domani. Cosa racconterò stanotte alla mia volontà?

Ciò che scrisse Nietzsche?

Ecco la perseveranza del viandante di Nietzsche.

“L’ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene un’occasione.

Il viandante: Parla – Dove? E chi? È quasi come se sentissi parlare me stesso, solo con voce più debole della mia.
L’ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un’occasione di parlare?
Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la sento, ma non ci credo”.
E poi ancora:

“L’ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell’ombra che tutte le cose mostrano, quando su di esse cade il sole della conoscenza. Io sono anche quell’ombra”.
“Il viandante: Ah, voi ombre siete “uomini migliori” di noi, me ne accorgo.
L’ombra: Eppure ci avete chiamato “importune” – noi, che almeno una cosa sappiamo fare – tacere e attendere. È vero, ci si trova molto, molto spesso al seguito dell’uomo, ma mai come sue schiave. Quando l’uomo fugge la luce, noi fuggiamo l’uomo: a tanto arriva la nostra libertà.
Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l’uomo e allora anche voi lo abbandonate.
L’ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose dell’uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre presente intorno a lui. Pur di possedere una totale conoscenza dell’uomo, sarei volentieri la tua schiava.
Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente padrona? Oppure se tu rimarresti schiava disprezzando il tuo padrone, condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della libertà, così come è rimasta a te e a me! Giacché la vista di un essere non libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero, se qualcuno dovesse dividerle con me – non

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