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«A me viva non mi ci trovano più». La storia di Adelina Sejdini

Di Fabio Rocchi, East Journal.net

Sabato 6 novembre a Roma si è tolta la vita Adelina Sejdini, gettandosi nel vuoto dal ponte Garibaldi. La storia di questa donna albanese di 47 anni era già da tempo nota alle cronache italiane. Per chi vuole ricostruire la vicenda, al di là delle approssimazioni giornalistiche dell’ultima settimana, è utile questo articolo: è Adelina stessa a parlare delle sue vicissitudini, in una intervista di un anno fa.

Di fronte a un caso del genere l’insidia della retorica a buon mercato è dietro l’angolo. Si cerca il colpevole e ancor prima, probabilmente, ci si sforza di risultare virtualmente sensibili, agganciandosi a un trend tramite un hashtag, per guadagnare spazio in un dibattito costituito per lo più da voci che non dialogano. Allo stesso modo, retorica della peggior specie la fa chi – come puntalmente è accaduto – chiede al contrario il silenzio e pontifica sulle assenze di tutti quelli che sapevano e non hanno agito. Un tipo di intervento del genere, narcisista nel momento in cui si sforza di rivendicare una presunta originalità, ha al suo interno una conseguenza inaccettabile: si danneggia ulteriormente la memoria di una vicenda personale e generazionale che purtroppo invece ha molto da dire e da insegnare.

Di Adelina si deve dunque parlare, non soltanto con il rispetto che si deve agli scomparsi. A lei, divenuta già da prima della sua morte emblema di una giovinezza e di una voglia di integrazione entrambe tradite, dobbiamo quanto meno uno sforzo: quello di cercare di interpretare le cose.

Le stelle non si vestono così

In un romanzo scritto vent’anni fa da Elvira Dones e subito tradotto in italiano nel 2001 con il titolo Sole bruciato, alcune ragazze albanesi vengono portate in Italia con l’inganno o con la forza e, successivamente, si ritrovano costrette a prostituirsi. Identico destino è toccato in sorte ad Adelina Sejdini. Rapita nei pressi di Durazzo e letteralmente deportata in Italia, nelle zone della migliore Lombardia, Adelina ha trascorso alcuni anni succube dei suoi aguzzini, che l’hanno segregata per trarne profitto.

In Sole bruciato di Dones a un certo punto una delle ragazze sottomesse e ridotte in schiavitù però riesce a ribellarsi e a denunciare la situazione, rivolgendosi alle autorità italiane. Proprio come aveva fatto nella realtà, alcuni anni prima, Adelina stessa, permettendo alle forze dell’ordine di eseguire oltre quaranta arresti ai danni del racket della prostituzione gestito dalla mala albanese.

Di quel romanzo, terribile per molti aspetti, causa il crudo realismo documentaristico attraverso il quale Dones è riuscita a narrare la vita delle stelle cadute in uno stato di prostrazione disumano, alcune scene rimangono impresse nella memoria del lettore. Non si tratta dei momenti più truculenti della narrazione, in cui l’indugio sulle torture fisiche e sul disgusto per le ingiustizie subite da vittime inermi diventa talvolta insopportabile. Viene da riflettere piuttosto sul nucleo metaforico attorno cui l’intera storia – collettiva e generazionale – è costruita.

Il titolo originale (al quale la traduzione voluta da Feltrinelli non rende in alcun modo giustizia) svela il nesso tra un appellativo affettivo riservato alla gioventù delle ragazze e, per antifrasi, la loro prigionia in un inferno senza ritorno: Yjet nuk vishen kështu; le stelle non si vestono così. La stella della purezza cioè si spegne, irrimediabilmente, a causa del disonore. Le vere stelle si vestono in ben altro modo, si comportano come si conviene, non commettono quel tipo di errori dopo i quali ci si ritrova in mano un destino senza possibilità di ritorno.

La semantica della kurveria

Il titolo, e il significato in parte nascosto di Yjet nuk vishen kështu, aiutano a mettere a fuoco un condizionamento culturale tanto retrogrado quanto ancora presente. Alla prostituta la morale comune continua a riservare un pesante marchio d’infamia sociale. L’offesa coincide con un interdetto dopo il quale quel tipo di esistenza ha meno valore. La disinvolta apertura mentale del mondo contemporaneo potrebbe far apparire come antiquata questa proposizione, ma il latente perbenismo di moltissimi punti di vista ancora prevalenti la rende comunque assai concreta. Se la rivoluzione di pensiero degli anni Settanta ha reso progressivamente accettabili alcuni comportamenti sessuali fino a ritenerli del tutto consueti, è pur vero che la condanna delle comunità continua a concentrarsi, in maniera quasi ossessiva e apotropaica, su una figura femminile archetipica: quella della puttana.

Nell’intricata filologia delle lingue di derivazione illirica e balcanica, la ricostruzione dell’etimo della parola kurva – appunto prostituta, meretrice, sostantivo comune a più territori e offesa ancora oggi ritenuta tra le più turpi e irripetibili – racconta la genesi di un pensiero antropologico ben preciso. Kurva, dalla radice del greco antico κονρη, è colei che ha deviato dal percorso maestro, colei che ha preso una strada che si allontana da una via metaforicamente retta. Il termine latino per-versio del resto, ovvero alla lettera il distacco dalle comuni norme morali di comportamento, esprimeva lo stesso concetto, prima di assumere nel vocabolario contemporaneo sfumature più che altro relative a condotte erotiche particolari.

Il percorso di Adelina è stato forzato fin dai suoi 17 anni. Una iniziale deviazione ha inciso in maniera devastante sulla sua esistenza. E, in un tipo di società che per alcune figure non ammette riscatti, è stato segnato in maniera irrimediabile da quella vicenda. La prostituta vale meno, ancor più se immigrata. Le sue esigenze possono attendere. Le sue richieste vengono misurate a partire da una posizione di svantaggio. I suoi diritti mal tollerati, riconosciuti parzialmente e con ritardo.

L’ultimo atto della vita di Adelina – quello nel quale richiedeva, gravemente malata di cancro, la cittadinanza italiana – risulta ancora condizionato da quel primo presunto sbaglio, in verità non commesso ma subìto. Non può davvero fino in fondo redimersi colei che – secondo questa prospettiva – ha sbagliato.

«A me viva non mi ci trovano più»

In un ultimo video che circola sui social, Adelina, dopo non essere stata ricevuta dalle autorità a Palazzo Chigi e non aver trovato interlocutori per le sue richieste, lascia per tutti noi una sorta di disperato testamento morale. Con parole semplici, avvolta nella bandiera italiana, dichiara senza mezzi termini che presto morirà. La sua rinuncia alla vita è espressa con una frase che ha una duplice interpretazione: «A me viva non mi ci trovano più». Senza dubbio, il lucido annuncio di quanto sta per succedere. La frase però nasconde anche, a ben guardare, un’ambivalenza di senso: mi sottraggo per sempre a una vita che mi sono stancata di subire. Mi metto finalmente al riparo dalle ingiustizie degli altri. Non sarò più vittima. Un suicidio si accompagna sempre a un profondo senso di solitudine; lo stesso che ci trasmette una frase tanto desolante e allo stesso tempo tanto assoluta, specie se consideriamo la sua ostinazione nel non concedere al domani la possibilità del cambiamento.

Torna alla memoria un’altra testimonianza della letteratura italofona di provenienza albanese, il racconto Mauro di via dei Gracchi, contenuto nella splendida raccolta Bevete cacao Van Houten! di Ornela Vorpsi. In quella storia una giovane, Teuta, viene ingannata a Tirana da un funzionario italiano. Con la promessa di un lavoro a Roma la ragazza si concede e ottiene i permessi per lasciare il suo paese alla volta della presunta terra promessa chiamata Italia. Appena arrivata a Roma però, Teuta scopre ben presto che l’indirizzo lasciatole dal funzionario è falso. Non c’è alcun futuro ad attenderla; nessuna delle cose incredibili che si era immaginata si avvererà. Al tramonto di un afoso pomeriggio d’estate Teuta si ferma disperata a fissare dall’alto di un ponte il Tevere, divenuto scuro per effetto del cambio di luce. In quello sguardo, c’è Adelina./https://www.eastjournal.net/

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