Breve cronaca della “petainizzazione” dell’Unione Europea
Di Olivier Dupuis, Linkiesta, 4 aprile 2022
Dopo i giorni di gloria della coppia franco-tedesca con Giscard e Schmidt e, in modo più ambiguo, con Kohl e Mitterrand – quest’ultimo più a rimorchio degli eventi che spinto da una vera ambizione – il motore si è fermato. L’accordo Schroeder-Chirac dell’ottobre 2002 sulla stabilizzazione della spesa agricola dell’Unione ne è stata la prima manifestazione pubblica. Ma i segni di questa regressione tedesca, di questo passaggio al tempo prussiano, di questa sconfitta dei sostenitori di una Germania europea si erano accumulati nel decennio precedente.
Il presidente Mitterrand non aveva risposto alla domanda del cancelliere Kohl su una possibile mutualizzazione della forza di deterrenza nucleare della Francia. Nel 1994, il mondo politico francese non aveva reagito alla proposta di creare un “nocciolo duro europeo” fatta da due figure di spicco della CDU, Wolfgang Schäuble e Karl Lamers. Nel 2000, la Francia era rimasta silenziosa di fronte alla proposta di una Federazione europea fatta dal ministro degli esteri tedesco, Joschka Fischer, proposta peraltro ancora sostenuta pubblicamente dal cancelliere Schroeder nel gennaio 2001.
Il “partito prussiano”, fautore di un progetto nazional-centrico, prima discreta minoranza, torna allora alla luce del sole. Guadagna nuovi sostegni tra i delusi dall’opzione europea, e trova un leader nella persona del cancelliere Schroeder, che rompe con il progetto europeo e opta per la vecchia alternativa tedesca, basata su un imperialismo mercantilista e un’alleanza privilegiata con la Russia.
Grazie alla forza di inerzia delle ambizioni defunte (quelle “federaliste” degli anni ’90) e all’allargamento agli stati dell’Europa centrale e orientale, i 15 allora riuscirono ad accordarsi su un progetto di Costituzione, il Trattato di Roma del 2004.
Ma in Francia la presa dei miti rimane forte. Il mito di essere uno dei vincitori della seconda guerra mondiale, basato sulla sostituzione nella coscienza e nell’inconscio collettivo francese degli inglesi e degli americani, liberatori dell’Europa occidentale, con Charles de Gaulle, redentore del petainismo. La convinzione che durante la guerra fredda, il deterrente nucleare francese avrebbe potuto garantire l’indipendenza della Francia, mentre al massimo avrebbe garantito le condizioni di una sua vassallizzazione. L’illusione che l’appartenenza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite segni il riconoscimento dell’eccezionalismo francese e non sia il risultato della scelta degli inglesi e degli americani di non ripetere le umiliazioni del Trattato di Versailles e, ancor più, il risultato di un calcolo pragmatico da parte dei sovietici e degli americani di “accompagnare” un paese chiamato a smantellare il proprio impero.
Allo stesso tempo, il vero genio politico europeo e francese del XX secolo, Jean Monnet, viene dimenticato, confinato ai margini della storia nazionale francese.
Tutte queste illusioni e questo grande confinamento, uniti alla perdita di peso della Francia in seguito all’ascesa dei paesi emergenti, hanno portato a una mancanza di respiro e di visione nella campagna referendaria del 2005 e al “no” del 55% della popolazione francese nel referendum sul trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa.
Da allora, l’Europa vive in balia di una leadership senz’anima e senza progetto. I decenni della Merkel da una parte e di Sarkozy-Hollande-Macron dall’altra. La Germania merkeliana che persegue, senza mai dirlo, la politica prussiana inaugurata dal suo predecessore, la Francia sarkozista-hollandiana-macroniana che persegue, indipendentemente dalla retorica dell’uno o dell’altro, la chimera di un’Europa francese. In questa Europa senza coscienza di sé, la Russia di Putin ha potuto spingere le sue pedine, comprando silenzi e complicità nell’establishment degli stati membri, soprattutto nella “vecchia Europa” e sostenendo tutti i fautori dell’approccio nazional-sovranista, tanto quelli fuori dal sistema, quanto quelli inseriti nelle sfere ufficiali del potere.
Dopo l’invasione dell’Ucraina in febbraio, molte posizioni sono state scosse e certezze frantumate. Ma questo è avvenuto grazie alla Nato, alla leadership degli Stati Uniti e alla mobilitazione politica della “nuova Europa”. Ma la compiacenza dell’Europa nei confronti del regime di Putin non è stata spazzata via, soprattutto in quei paesi per i quali l’Unione è soprattutto uno strumento al servizio di un progetto nazionale: Germania e Francia. Questa visione comune ha dato origine a una coabitazione di convenienza, dove ciascuna delle due parti cerca di trovare una soluzione comune su tutte le questioni sensibili, che non vanifichi il progetto nazionale dell’altra. Con la partenza del Regno Unito, questa alleanza oggettiva si è notevolmente rafforzata, al punto che si può ritenere che la Germania e la Francia esercitino ormai un vero condominio sull’Unione Europea.
Così, dietro le posizioni ufficiali in linea con Kyiv e a difesa di Kyiv, l’atteggiamento di Germania e Francia, due paesi che erano – vale la pena ricordare – i più contrari all’adesione dell’Ucraina alla NATO, con la motivazione che avrebbe potuto provocare Mosca, rimane a dir poco ambiguo. Al punto che è lecito ritenere che a Parigi e Berlino non credano veramente in una vittoria dell’aggredito, né a fortiori nell’assoluta necessità di questa vittoria per l’Ucraina, per l’Europa e per il mondo libero. Di conseguenze pensano sia necessario pensare alle future relazioni con l’aggressore.
La parsimonia e la lentezza del governo tedesco nel dare seguito all’impegno per la fornitura di armamenti all’Ucraina sono molto eloquenti. Sulle rive della Senna, dove è nota l’abitudine di fornire con grande facilità ogni tipo di armamenti, non c’è una particolare smania di fornire agli ucraini ciò di cui hanno urgente bisogno. Sul fronte economico e commerciale, né Berlino né Parigi sembrano esercitare una pressione significativa per convincere i grandi gruppi industriali tedeschi e francesi a ritirarsi dalla Russia. Solo il fronte del “dialogo” sembra conoscere un’attività travolgente. Ormai non si contano più le telefonate del cancelliere tedesco e del presidente francese al maestro del Cremlino.
Ma è sulla questione dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea che le posizioni tedesca e francese sono le più indicative dell’influenza del condominio tedesco-francese sull’Unione europea e, specularmente, rivelano la centralità della Nato (e degli Stati Uniti) nella definizione e nell’attuazione della politica di sostegno all’Ucraina, anche da parte degli stati membri dell’Ue. Quando si tratta dell’Unione – e solo dell’Unione – le cose procedono infatti in modo diverso.
Così, il presidente Macron non crede che sia possibile “aprire una procedura di adesione con un paese in guerra”. Strana risposta questa, dato che non è giustificata da alcun argomento giuridico e che l’avvio del processo gode del forte sostegno politico di più di venti stati membri, che ritengono questa debba essere una priorità per l’Unione. È anche una forma di amnesia selettiva se pensiamo che nel 1940, su iniziativa di Winston Churchill – e di Jean Monnet – il parlamento britannico propose alla Francia, in guerra, la creazione di un’Unione franco-britannica con un solo parlamento e un solo governo. Charles de Gaulle, allora sottosegretario alla difesa e alla guerra, sostenne il progetto. Ma il presidente del Consiglio, Paul Reynaud, che era piuttosto favorevole, fu licenziato il giorno dopo e sostituito dal maresciallo Pétain.
Solo due personalità della “vecchia Europa”, il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, hanno preso una posizione univoca a favore della concessione all’Ucraina dello status di paese candidato e della rapida apertura dei negoziati di adesione. Come i leader dei paesi dell’Europa centrale e orientale e di altri paesi che sostengono il processo di adesione dell’Ucraina all’Unione, essi hanno piena consapevolezza della misura di ciò che è in gioco in Ucraina, non solo per gli ucraini ma per tutti gli europei e, ultimo ma non meno importante, per la stessa Unione.
Perché se l’adesione dell’Ucraina è un’aspirazione più che legittima degli ucraini e uno strumento fondamentale per rafforzare lo stato di diritto, il sistema democratico e l’economia di questo grande paese, essa è diventata anche una necessità vitale per l’Unione e i suoi stati membri, in quanto sarebbe decisiva per allentare la presa del condominio franco-tedesco e per ripristinare una logica davvero europea nelle “decisioni sull’Europa” e nella valutazione delle sue complessive esigenze di libertà e di sicurezza.
Lo status quo politico e istituzionale degli ultimi vent’anni – basato per errore, per opportunismo o per pigrizia intellettuale, su questo condominio franco-tedesco – è in ogni caso già condannato. La decisione tedesca di destinare il 2% del bilancio alla difesa, così come la creazione di un fondo di 100 miliardi di euro destinato a rinnovare l’esercito tedesco, per quanto necessari siano, stanno già portando di per sé profondi cambiamenti nell’equilibrio all’interno dell’Unione. I giorni della relativa superiorità qualitativa e quantitativa dell’esercito francese sono contati e, con essa, la chimera della preminenza della Francia in una possibile architettura di difesa europea.
Ma al di là della questione francese, la guerra in Ucraina dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la proposta dell’indipendenza strategica dell’Europa, attraverso la costruzione di un “pilastro europeo della Nato”, è una pura illusione a breve e medio termine.
All’interno dell’Unione, i tanto decantati progressi nel campo della difesa (Fondo Europeo di Difesa e Cooperazione Strutturata Permanente) rappresentano poco più che un’europeizzazione dei costi di ricerca e sviluppo e una nazionalizzazione dei suoi vantaggi a beneficio, essenzialmente, del condominio franco-tedesco.
La bussola strategica tanto cara all’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, è una bussola senza nave, senza capitano, senza equipaggio e senza armatore. A meno che, naturalmente, non si consideri come “nave” un assemblaggio di 5.000 soldati di vari contingenti nazionali, pomposamente chiamato “forza di reazione rapida europea”. Questo progetto, che era già ridicolo prima dell’invasione russa dell’Ucraina, è diventato una mera fissazione burocratica.
Al vertice di Versailles, invece di celebrare una presa di coscienza dell’Unione europea, una ventina di stati membri hanno dovuto lottare tutta la notte per ottenere la conferma della vocazione europea dell’Ucraina e per poi vedere questo risultato messo apertamente in discussione dal presidente Emmanuel Macron e dal primo ministro Mark Rutte, appena finito il vertice. Come se, in una situazione del genere, gli stati membri non potessero prendersi qualche libertà con le procedure formali e decidere di concedere immediatamente all’Ucraina lo status di paese candidato, lasciando qualche settimana alla Commissione per completare la procedura, che consenta l’apertura formale dei negoziati.
In un’Europa con un minimo di coscienza di sé, questa decisione avrebbe dovuto essere presa in pochi minuti, permettendo ai capi di stato e di governo di avviare un vero dibattito sulle altre iniziative a sostegno dell’Ucraina, che l’Unione potrebbe e dovrebbe prendere, comprese quelle politiche e istituzionali che permetterebbero all’Unione di porre le basi di una vera politica estera e di sicurezza comune, dotata di adeguati strumenti militari e diplomatici.
A meno che non ci sia un radicale cambiamento di rotta da parte dei 27 stati membri, che si traduca in un incrollabile sostegno all’Ucraina e in un risveglio dal coma profondo dell’Europa, attraverso l’adozione di regole e di strumenti di politica estera e di sicurezza comune, il destino dell’UE è segnato: una lenta e dolce “petainizzazione”. La sua trasformazione in un’istituzione fantoccio all’interno di un continente completamente “rinazionalizzato”, con Berlino e Parigi al comando e qualche rappresentazione teatrale comune a Bruxelles. Una finzione politica, della quale anche Vladimir Putin potrebbe diventare nuovamente un interlocutore./http:/leuropeen.eu/