Di Pierfranco Bruni*
La tanto discussa autonomia differenziata interessa anche il versante inerente il patrimonio culturale. E’ un dato di fatto che diventa considerevole sul piano amministrativo considerato il fatto che i beni culturali sono economie non esportabili tra una Regione e un’altra.
Credo che la questione riferita alla differenziazione regionale cominci ad essere un problema di fondo anche nella gestione e nella valorizzazione del patrimonio culturale, essendo tra l’altro patrimonio identitario nazionale ma soprattutto regionale.
Ci si riappropria della cultura nazionale non solo attraverso la necessità di avanzare una identità di pensiero e di idee, ma anche attraverso i beni culturali, reale patrimonio materiale e immateriale del contesto italiano.
Ma si pone un vero problema di fondo che e quello delle soprintendenze ai beni culturali regionali poste come “fortino” tra quelle territoriali, inter-territoriali e il ministero. Non credo che siano necessarie e cosi economicamente più sostenibili. Sono trascorsi lustri dal Codice dei beni culturali ma anche dalla fase preparatoria a questo. Forse bisognerebbe rivedere anche nel nome fi una autonomia differenziata tra regioni una tale materia.
Questo significa che occorre riorganizzare una strategia progettuale in cui le culture dei beni culturali devono essere patrimonio realmente nazionale tra cinque riferimenti: la Storia che esprime l’identità, le Arti, con essi si intende il campo che va dall’archeologia ai monumenti, dalla pittura ai centri storici, che sottolineano ricerca, appartenenze e creatività, le Antropologie, con la eterogeneità delle etnie storiche presenti in Italia, che rappresentano la cultura popolare e la civiltà dei territori unificanti in una geografia nazionale, pur con le diversità di esperienze e presenze testamentarie, con le biblioteche, gli archivi e i musei, pur nella eterogeneità degli aspetti, che sono le espressioni di una tutela documentaria del patrimonio di una vera civiltà di una Nazione, con lo spettacolo, il cinema, la letteratura e il teatro nella valorizzazione di una cultura ampia, ma finalizzata alla valorizzazione dei principi portanti che guardano ai linguaggi e alla lingua italiana con una peculiare importanza.
Ciò significa, però, che proprio in questi campi non possono essere adottati forme speculari di autonomie regionali, ma deve crearsi una omogeneità di percorsi, di processi e di progetti unitari nazionali. Non può esserci una autonomia differenziata tout court, ma una progettualità identitaria nella articolata visione soprattutto valorizzante che vede interessati: economie, investimenti, produttività con l’obiettivo di una ricaduta sulle forze trainanti delle culture che sono il turismo, la bellezza appunto unificante, l’immagine di un o dei territori.
Occorre pensare se si vuole ad una autonomia ragionata soprattutto se si tiene in considerazione al fatto che i Musei nazionali vicino una loro autonomia e che molti beni culturali hanno una duplice regolamentazione tra sede centrale e sedi regionali. Così come i beni immateriali che rappresentano un particolare e stimolante aspetto delle culture ereditate ed ereditarie e portano sulla scena della Cultura popolare il valore della Tradizione.
I modelli etno-antropologici sono in stretta correlazione con il territorio, ovvero con una geografia di incontri tra micro storia e macro storia. I beni culturali sembrano sviluppi di economie differenziate ma sono pur sempre processi all’interno di una economia e di una politica organica e nazionale. I beni culturali devono essere considerati come beni stabili in un raccordo tra risorse e vocazioni e pertanto sono modelli di transito di economie sommerse tra fruizione e ricerca in investimenti più incisivi sui territori.
Bisognerebbe considerarli come un sistema all’interno del Sistema di sviluppo e non soltanto come beni di consumo bensì come beni stabili che producono consumo ed economie di ritorno. La cultura e intendo per tale, in questo caso specifico, i beni culturali deve-devono entrate nei modelli produttivi, ovvero nella produttività intesa come risorsa e quindi come tale produce-producono sviluppo oltre che sapere e saperi e oltre a modificare la qualità della vita di un’area geografica.
Un altro aspetto significativo riguarda la gestione dei beni culturali da intendersi non più come beni soltanto depositati e cifre della memoria, ma come attività promozionali con capacità da esportare culture, esperienze, ed esperienze e non come esercizi per importare professionalità. Bisogna, chiaramente, sempre tenere presente i quattro capisaldi antichi del patrimonio culturale nazionale: tutela, conservazione-salvaguardia, valorizzazione e fruizione.
Capisaldi per poter creare una politica di sviluppo e di economie sommerse su tutto ciò che riguarda la “categoria” di beni materiali e beni immateriali. I quali non possono essere scissi se si vuole restare fedele ad una Tradizione di patrimonio. Il concetto di “Pater” si lega alla realtà storica e immanente di una Nazione. Valore della “prassi” si direbbe, prendendo in prestito il concetto, o della ragione sarebbe, meglio, e l’identità Spirituale.
Da questo punto di vista la cosiddetta autonomia differenziata troverebbe una chiave di lettura più consona ad una differenziazione delle economie tra le diversità di un’Italia che dovrebbe rileggere cultura e storia dal Risorgimento sino ad oggi. Ma sarà proprio vero ciò? Il discorso è molto articolato e interessa proprio una questione legata alla cultura che è identità ma anche economia. Ma i beni culturali restano sempre la Tradizione nella storia di una cultura ereditata in una geografia territoriale e della civiltà italiana. Una questione da affrontare con molta serietà.
*Presidente Centro Studi e Ricerche Francesco Grisi