MARIA TERESA LIUZZO E’ UNO SPIRITO ASSOLUTAMENTE LIBERO, CHE PLASMA LA MATERIA POETICA IN MANIERA ASSOLUTAMENTE ORIGINALE, EVITANDO GLI STAMPI E, I PRESTITI PARALIZZANTI.
NON HA, DUNQUE, BISOGNO DI PRESENTAZIONE, NE’ AL PUBBLICO NAZIONALE, NE’ A QUELLO INTERNAZIONALE
di Antonio Catalfamo ( Docente Università degli Studi di Messina. Studioso di Cesare Pavese. – Sichuan International Studies University ( CINA )
Maria Teresa Liuzzo è presente da tanti anni nel mondo letterario, come poetessa, autrice di romanzi, instancabile operatrice culturale, organizzatrice di eventi e fondatrice di apprezzate riviste. Non ha, dunque, bisogno di presentazione, né al pubblico nazionale, né a quello internazionale. Autorevoli critici, che rispondono ai nomi di Antonio Piromalli, Giorgio Bárberi Squarotti, Mario Sansone, Ferruccio Ulivi (solo per citarne alcuni fra i tanti) si sono occupati della sua opera poliedrica, analizzandola da vari punti di vista e con diverse metodologie, a conferma della sua validità oltre i limiti di scuola, di corrente, o, peggio ancora, di casta o di conventicola.
Il fatto di essere vissuta nella provincia calabrese, all’estremo sud della penisola italiana, le è servito ad evitare di rimanere invischiata nel labirinto delle lobby, con i loro vizi consolidati, dei sodalizi assillanti, delle correnti letterarie standardizzate, che tarpano le ali al poeta e restringono la sua ispirazione entro schemi stereotipati.
Ma Maria Teresa Liuzzo è uno spirito assolutamente libero, che plasma la materia poetica in maniera assolutamente originale, evitando gli stampi e i prestiti paralizzanti. Se vogliamo trovare un antecedente nella letteratura calabrese, possiamo far riferimento senz’altro ad Alba Florio, poetessa rivalutata da Antonio Piromalli, che, guarda caso, ha fatto assegnare alla Liuzzo proprio il premio istituito per tramandare la memoria della Florio, che, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, seppe rompere, per l’appunto, la camicia di forza dell’ermetismo, dando vita ad una poesia autenticamente esistenziale.
A proposito di Alba Florio, Piromalli parla di «poesia solitaria e drammatica», propria della migliore letteratura calabrese, rappresentata, oltre che da lei, da poeti come Lorenzo Calogero. La stessa definizione possiamo usare per Maria Teresa Liuzzo, perché un dramma esistenziale sta al centro delle sue poesie, un dramma autentico anche qui, non stereotipato, corrispondente ad una posa letteraria, come avviene, per converso, nella poesia ermetica e decadente, il cui ampio arco si dispiega, purtroppo, fino ai giorni nostri. E’ un dramma che risale già agli anni dell’infanzia, che ermerge dai romanzi che la Liuzzo ha pubblicato e che ora si riverbera nei suoi versi, a parte qualche parentesi felice vissuta fuori dalla sua Calabria, presso gli zii Scipioni.
Dramma che discende, poi, dalla ricerca dell’Assoluto, a cui tende tutta la vita, senza che venga mai raggiunto. Dio, così come avviene nelle poesie di David Maria Turoldo, viene vissuto come continua domanda, non come risposta.
Dramma che consiste, inoltre, nel rapporto sempre più difficile con gli altri, che determina lo «scacco» esistenziale, in una società sempre più fondata sull’egoismo. Ricerca inesausta dell’Assoluto, scacco esistenziale, sono, per Piromalli, caratteristiche della migliore tradizione letteraria calabrese, assieme alla sete di giustizia, che rimane inappagata e, perciò, genera dolore. C’è in Maria Teresa Liuzzo un pessimismo cosmico di matrice leopardiana, che emerge già dalla raffigurazione della natura, che non ha spesso i caratteri lussureggianti del paesaggio calabrese, così come esso ci appare nella sua dimensione naturale. E’vero, ci sono i fiori e le piante che dominano la flora mediterranea di quella terra bellissima, ma tutto il paesaggio si fa dolente, diventa correlativo oggettivo dei sentimenti che agitano l’animo della poetessa.
Potrebbe sembrare anodina la definizione della poesia di Maria Teresa Liuzzo, da parte di Antonio Piromalli, come appartenente allo «schieramento novecentesco», in quanto la poetessa vive cronologicamente nel Novecento, e questo è un dato evidente ed inscindibile. Ma tale definizione è tutt’altro che scontata, in quanto tanta parte della poesia del secolo scorso vive di “rimasticature” del passato, di “romanticismi”, di “classicismi”, di “simbolismi” fuori stagione. E Leonardo Sciascia ha ben detto che questi imitatori “perfetti” di modelli precostituiti e schematici assomigliano a delle scimmie che, messe davanti ai tasti di una macchina da scrivere, sono in grado di replicare un sonetto di Shakespeare. Una moltitudine di scimmie è in grado di riprodurre l’intera biblioteca del Museo Britannico. La “perfezione” opera a discapito dell’originalità.
Maria Teresa Liuzzo, per converso, non è imitatrice pedissequa di modelli stantii dei secoli passati, riproposti da altri come cibi precotti. Appartiene alla sensibilità poetica del Novecento, con l’avvertenza che, come ha giustamente precisato Dario Bellezza, il più grande poeta del Novecento è un poeta dell’Ottocento: Giacomo Leopardi, che apre la strada alla “modernità”, ad un sentire nuovo la realtà che muta. Anche Maria Teresa Liuzzo, come osserva Piromalli, vive la realtà del suo tempo nel continuo mutare, come le acque di un fiume (ci ha insegnato Eraclito), nelle quali un uomo o una donna non possono bagnarsi due volte, perché di tratta di un eterno fluire. Perciò la Liuzzo, sempre secondo Piromalli, è lontana dal «tradizionalismo», inteso come riproposizione stanca di una presunta «tradizione» letteraria e, specificatamente, poetica. C’è nella sua poesia una «metamorfosi continua della parola», che si adatta a quella della realtà, un susseguirsi di «metafore» che sono espressione di un «mondo etico», «presupposto o affermato», che, a sua volta, esprime una coscienza continuamente mutevole, che denuncia, cioè, una «coscienza sofferente», tormentata, che aderisce alle pieghe del «mondo grande e terribile» (per dirla con Gramsci).
Maria Teresa Liuzzo, anche fisicamente, è una di quelle donne calabre «portatrici di anfore» descritte da Cesare Pavese nelle sue lettere dal confino antifascista a Brancaleone, eredi di una grecità classica. E di quelle donne ripropone il «mistero». Su questa dimensione ritorneremo a breve. Intanto, vogliamo mettere in risalto come la Liuzzo sia erede anche dei poeti popolari, presenti in tutto il mondo, oltre che nella Magna Grecia, così come li hanno raffigurati congiuntamente (guarda caso) Giuseppe Bonaviri e Pablo Neruda.
Bonaviri racconta che al suo paese, Mineo, in Sicilia, per secoli i poeti popolari si sono radunati di fronte a una roccia per recitare i loro versi. E questo perché ci sono dei luoghi «mitici», nei quali promanano dal mondo ctonio ed ipoctonio onde gravitazionali, che generano benessere o malessere negli uomini, quasi fossero rabdomanti. Tali sono i luoghi nei quali sorgono, ad esempio, i templi o le chiese. I poeti registrano queste onde gravitazionali benevole come ispirazione per i loro versi.
Pablo Neruda scrive a proposito dei poeti popolari: «Poeti naturali della terra, / nascosti nei solchi, / […] se comprendessimo / l’acqua / forse parlerebbe come voi, / se le pietre raccontassero il loro lamento / o il loro silenzio, / con la vostra voce, fratelli, / parlerebbero. / Numerosi / siete, come le radici. / Nel cuore antico / del popolo / siete nati / e da lì viene / la vostra voce semplice. / Avete la gerarchia / dell’anfora silenziosa di argilla / abbandonata in un angolo, / canta d’improvviso / quando trabocca / ed è semplice / il suo canto, / è solo terra e acqua. / Nello stesso modo voglio che cantino / i miei poemi, / che portino / terra e acqua, / fertilità e canto, / a tutto il mondo».
La poesia di Maria Teresa Liuzzo è, per l’appunto, un’anfora antica, che contiene acqua e terra, fonti della vita: la terra con cui siamo stati plasmati, biblicamente; l’acqua con la quale siamo stati battezzati. Entrambe fonti di «fertilità» e di «canto», manifestazioni estreme del mistero dell’esistenza umana, che scorre continuamente e si rinnova, si arricchisce ad ogni istante di nuovi significati. Una poesia semplice, quella della Liuzzo, «moderna», secondo la definizione di Piromalli, e, insieme, «antica», con remote radici che affondano nei secoli, fino ai rapsodi, ad Omero, ai poeti popolari, sparsi per il mondo, ben presenti nel suo sud, nella Calabria greca e bizantina, che scivola lungo lo Stretto di Messina, tra Scilla e Cariddi, sull’onda del «mito», laddove Ulisse volle ascoltare le voci delle sirene, legato all’albero della nave, per penetrare, per l’appunto, il «mistero» della vita.
Cesare Pavese, in un suo saggio, Due poetiche, ha scritto che la poesia nasce sempre da un «mistero». La poetica ermetica (la prima delle due a cui fa riferimento il poeta piemontese nel titolo) si ferma ad esso, e il poeta manifesta tutto il suo «stupore», se ne bea, e cerca di comunicare questa «maraviglia» al lettore. La poetica realista (almeno come la concepisce Pavese) parte dal «mistero», lo analizza razionalmente attraverso il confronto con il mondo che si è creato dentro di lui, con le sue componenti consce ed inconsce, comprensivo dell’inconscio individuale e collettivo, e, per il tramite di questa analisi comparativa, giunge al significato ultimo dell’esistenza umana. Così fa Maria Teresa Liuzzo, partendo dalle sue remote radici calabre, greche, anzi magno-greche, scavando dentro se stessa, ascoltando le voci della natura, l’acqua e la terra, la vita sempre mutevole che va dipanandosi, per trovare sempre nuova ispirazione poetica, nuove «metafore» (seguendo sempre il ragionamento di Piromalli), che condensano il significato ultimo dell’esistenza, sua e dell’umanità intera. In questo senso, come ci ha ricordato Franco Ferrarotti, la poesia è la più alta manifestazione dell’umanità, dell’essere, in quanto, proprio attraverso lo strumento della «metafora», dà all’esistenza più semplice, più umile, un significato «universale». Ma la poesia, così intesa, oggi è rara nel mondo tecnologico e Maria Teresa Liuzzo ne è uno dei pochi rappresentanti.
Antonio Catalfamo