Di Matteo Zola East Journal.net
Quale sia l’impatto della guerra in Ucraina nei Balcani, e in particolare sulla Serbia e sul Kosovo, è stato uno dei temi dibattuti durante Estival, il festival di politica, società e cultura dell’Europa centro orientale organizzato da Osservatorio Balcani e Caucaso, East Journal e la Scuola di Studi internazionali dell’Università di Trento.
Le democrazie dei Balcani sono facili da destabilizzare, la relativa fragilità delle istituzioni locali e la presenza di gruppi che contestano lo status quo, sia dal punto di vista etnico, sia per quanto riguarda i confini, rende la regione un fronte freddo della guerra in Ucraina, che ha approfondito dinamiche già presenti. Inoltre, i sempre più forti legami economici e culturali con paesi non democratici, dalla Cina alla Russia, rende i Balcani permeabili a retoriche anti-occidentali.
Il caso serbo è senz’altro quello più rilevante. Belgrado si è opposta fin da subito alle sanzioni verso la Russia, e i dati statistici fotografano l’umore della società verso la guerra in Ucraina: solo un cittadino serbo su quattro crede che la Russia sia responsabile della guerra mentre tutti i sondaggi rilevano che più dell’80% dei cittadini serbi è contraria alle sanzioni. Sullo sfondo c’è la tradizionale vicinanza storica e culturale tra serbi e russi, tanto che due cittadini su tre considerano ancora la Russia il miglior amico della Serbia. Perché? Valgono le ragioni storiche, anche la Serbia fu sottoposta a sanzioni, e vale lo scetticismo verso l’UE e un processo di adesione che sembra ormai arenato: il 66% dei serbi ritiene che la Serbia non entrerà mai nell’UE. D’altro canto, la Russia ha la capacità di rinnovare costantemente il proprio soft power sul paese senza dover offrire nulla, è sufficiente tenere aperta la questione dell’indipendenza del Kosovo. Una questione verso cui Mosca non ha mai proposto vie d’uscita né offerto soluzioni negoziali.
L’influenza russa sulla Serbia è di fatto garantita da questa inazione verso la questione kosovara. Un’influenza, insomma, che il Cremlino mantiene senza dover muovere un dito, anzi, proprio perché non muove un dito. A muoversi è però quella parte di società serba che contesta l’esecutivo guidato dal presidente Aleksander Vučić. al potere dal 2014, prima come premier e poi come presidente. Ogni sabato, da molte settimane, vanno in scena proteste a Belgrado che chiedono le dimissioni del ministro degli Interni, Vulin, ritenuto responsabile della recrudescenza degli scontri in Kosovo, e si scagliano contro l’apparato informativo del governo, che controlla i principali media del paese.
Un paese in cui il partito di governo ha di fatto penetrato e occupato tutte le istituzioni dello Stato, al punto che senza la tessera del partito diventa difficile anche iscrivere i bambini all’asilo. Non a caso un elettore su otto è membro del Partito progressista serbo (SNS), che è il partito del presidente Vučić. In questo quadro, le elezioni parlamentari che si terranno il prossimo 17 dicembre, richieste dalle opposizioni, non sono una concessione o un’iniziativa tesa a favorire l’alternanza di potere, ma sono dettate dalla volontà di rafforzare il proprio regime. Insieme alle elezioni parlamentari si voterà per il rinnovo delle istituzioni locali in metà del paese. E già si riscontrano strani cambi di residenza verso i comuni interessati al voto. Non è la prima volta, in un paese in cui in passate elezioni hanno votato anche i morti.
Le elezioni saranno largamente influenzate dai media controllati dal governo i quali, fin dall’inizio della guerra in Ucraina, hanno soffiato sul fuoco delle tensioni in Kosovo. Tensioni che sono solo in parte il risultato dell’instabilità internazionale, ma che riproducono in scala ridotta il conflitto più grande. Il governo kosovaro, specialmente dall’elezione a primo ministro di Albin Kurti, ha descritto l’aggressione russa all’Ucraina come una riproposizione di quanto avvenuto in Kosovo alla fine degli anni Novanta. Si motiva così la forte solidarietà dei kosovari verso gli ucraini, benché il governo di Kiev non riconosca l’indipendenza del Kosovo. Ecco allora che la guerra in Ucraina influenza le relazioni intraregionali seppur non direttamente ma attraverso la riproposizione di tensioni del tutto autoctone ed endogene.