Di Fabio Rocchi
A distanza di qualche giorno ripropongo un estratto della relazione discussa durante la cerimonia di premiazione del Premio letterario KRENARBERIA, organizzato e promosso dal Qendra e Studimeve dhe Publikimeve për Arbëreshët, con la partecipazione di Istituto Italiano di Cultura a Tirana.
Sono già noti i nomi dei vincitori: Ilina Sancineti con il racconto L’appartenenza; Nicola Scalici, con il racconto Akkordeon; Mario Calivà, con il racconto Mushku. A loro vanno esternate ancora una volta sincere congratulazioni.
Ma la qualità di molte delle prose che abbiamo avuto modo di leggere merita senza dubbio un approfondimento critico ulteriore, che come discusso assieme alla Prof.ssa Diana Jup Kastrati e alla Dott.ssa Jolanda Lila Tusku, troverà spazio in una delle prossime pubblicazioni del QSPA all’interno della rivista CONTINUUM. Si tratta infatti di prose che testimoniano la resilienza delle parlate arberëshë, così come alcuni interessantissimi casi di bilinguismo italo-arberësh, in cui le commistioni culturali e letterarie raccontano una contemporaneità ancora vitale, ben radicata anche nelle ultime generazioni.
Le considerazioni che seguono sono frutto di un lavoro condiviso con tutti gli studiosi del Qendra e Studimeve dhe Publikimeve për Arbëreshët, così come dei confronti intercorsi con alcuni membri autorevoli delle comunità arbëreshë, tra i quali vorrei sicuramente ricordare il Professor Carmine Giacomo Stamile, la Prof.ssa Fernanda Pugliese (entrambi membri della Giuria) e l’amico Damiano Guagliardi, Presidente di FAA ARBERIA 3.0 (Federazione Associazioni Arbëreshe), al quale devo molti spunti e suggerimenti relativamente alla letteratura contemporanea di provenienza calabrese.
Tirana, 28 febbraio 2024
Oggi penso che si possa parlare di un giorno di festa. E di un giorno importante. Una festa, perché ancora una volta l’Albania testimonia un interesse profondo per le comunità arbëreshë. Ma anche un momento dal mio punto di vista molto significativo sotto il profilo letterario.
QSPA con questa iniziativa ha voluto stimolare anche nelle ultime generazioni una produzione che prevedesse, come da bando di concorso, l’impiego delle varianti linguistiche della tradizione nativa all’interno di un contenuto inedito e originale. Come sappiamo – è questione dibattuta nella comunità scientifica ed è stata anche oggetto di un recente convegno organizzato da QSPA e ospitato qui a Tirana lo scorso settembre – la lingua arbëreshe è oggi definita una lingua a rischio, a causa di fenomeni socio-linguistici complessi. Numerose ragioni, a partire dagli anni ‘50 e ‘60, hanno spinto le nuove generazioni a disertare progressivamente l’arbëresh come lingua d’uso e a considerare l’italiano a tutti gli effetti come lingua madre. C’è una frase dello scrittore Carmine Abate – probabilmente uno dei primissimi nomi che vengono alla mente oggi quando ci si vuole riferire ad un narratore di provenienza arbëreshe – che sintetizza questo processo di avvicendamento e, nei fatti, di vero e proprio bilinguismo: “Italishtja për mua është “gjuha e bukës” – ndërsa arbërishtja është “gjuha e zemrës”.
Due lingue per due atteggiamenti mentali e produttivi diversi dunque. Il valore d’uso e la praticità, in questa partizione, vengono associati all’impiego dell’italiano, mentre alla sfera degli affetti, dei ricordi e delle emotività viene destinata la lingua appresa in casa da piccoli. Direi che, secondo una prima panoramica di letture che sto ancora compiendo, dagli anni 70 del secolo scorso è sempre più difficile trovare esempi di narrativa scritta esclusivamente in varietà arbëreshë, mentre l’italiano diventa anno dopo anno una soluzione alla quale gli scriventi fanno riferimento in via preferenziale. Però è molto interessante che le radici arbëreshë, i riti, le dinamiche delle gjitonie e tutta una serie di termini che afferiscono a quella tradizione continuino ad essere raccontati secondo schemi letterari ibridi, in cui vari tipi di intersezioni coesistono creando equilibrio e particolarità stilistiche. Da un certo momento in poi constatiamo come il prestigio di una letteratura più nota come quella italiana arriva a contaminare i meccanismi e gli schemi narrativi principali, senza però riuscire a intaccare uno spirito ancestrale che continua a tramandare archetipi legati a radici secolari, quelli della diaspora, del Tempo Grande, così come la vita delle comunità che si sono avvicendate successivamente.
I racconti che sono giunti alla nostra attenzione dopo la pubblicazione del bando rappresentano una testimonianza vitale e contemporanea dell’impiego del bilinguismo del quale parlavo, di una sovrapposizione tra sostrati culturali differenti. Dei molti racconti che abbiamo avuto il piacere di leggere – alcuni davvero di buona qualità letteraria – uno soltanto è stato scritto integralmente in lingua arbëreshe, mentre tutti gli altri presentano al loro interno:
• inserti provenienti dall’oralità
• rievocazione di canti
• rievocazione di ballate che provengono dal folclore arbëresh
• trascrizione di lapidi e/o di frammenti lirici
• trascrizione di detti popolari
• trascrizione di espressioni gergali che provengono da connotazioni linguistiche direttamente riferibili a una sfera affettiva
Come si comprende da questo elenco sommario, abbiamo avuto modo di apprezzare una ricchezza davvero significativa di testimonianze che affioravano incastonate nella lingua del racconto, che era appunto la lingua italiana. Si tratta di una situazione prensile, ottimale per l’analisi letteraria e con la dott.ssa Jolanda Lila, come me ricercatrice presso il QSPA, abbiamo cominciato a discutere assieme alla Prof.ssa Kastrati della possibilità di commentare alcuni di questi racconti attraverso un apparato di note di carattere storico-linguistico.
Pur dotati ognuno di luce propria e di un contenuto di evidente originalità, i racconti che ci hanno colpito maggiormente presentano la ricorrenza di alcuni elementi che, nella tessitura narrativa, hanno creato in noi l’idea di una vera e propria letteratura, di una koiné tematica che vive appunto di luoghi e figure a cui viene spontaneo fare riferimento. Voglio a questo proposito ricordare:
• L’importanza socio-culturale della struttura della gjitonia
• La presenza degli animali in una vita per certi versi ancora rurale
• La presenza della memoria rievocata attraverso le figure dei nonni
• Il cimitero come luogo di mezzo, terra posta a metà tra i vivi e i morti
• Il riferirsi alla cultura gastronomica
• Il riferirsi alla cultura musicale e in particolar modo alla figura del rapsodo, del cantore di versi
• La figura di Gijergj Kastriot Skanderbeg, evocata non come simulacro ideologico ma con una funzione valoriale di alto profilo. Citare Skanderbeg equivale cioè a riferirsi ad una serie di valori morali di cui il popolo arbëresh mostra di essere in possesso
Vorrei chiudere con degli esempi ricavati dalle scelte lessicali compiute da due degli autori premiati. In merito al patrimonio orale delle espressioni che vengono recuperate su carta abbiamo “barku i pjot, bin e kendon” ovvero Barku i plot, la pancia piena, scende e canta. Pende e canta, come recita un passaggio di uno dei racconti migliori che abbiamo ricevuto. In questa semplice espressione due caposaldi della cultura arberëshe, la gastronomia e il canto, si coniugano in un connunbio gaudente dal quale scaturisce la poesia, emanazione sempre presente dell’oralità arbëreshe.
Anche la figura del mushku, del mulo, indiscusso protagonista di uno dei racconti più significativi che abbiamo avuto modo di ricevere, è da analizzare.
Qui abbiamo due elementi che testimoniano la densità di un tale tipo di letteratura, che potremmo cominciare a definire letteratura dell’intersezione, secondo una categoria che sto cercando di elaborare da un punto di vista teorico:
• abbiamo l’intersezione, l’intertestualità a tratti piuttosto evidente, con un insigne precedente della letteratura italiana, ovvero l’asino grigio che fatica nella cava in cui lavora il Rosso “malupilo” di Verga (1878)
• abbiamo una operazione raffinatissima, per la quale se volessimo tradurre in italiano il termine mushku (mushkë in albanese standard) dovremmo utilizzare il termine mulo.
Bene, cosa è il mulo. Non è un cavallo. Non è un asino. È una intersezione genetica tra due tipi della stessa macrofamiglia – come mi suggeriva la Prof.ssa Fernanda Pugliese – che però quasi per ostinazione stenta a riprodursi, mantenendo una linea cromosomica assai particolare. In questo titolo, e in questa continua ibridazione, possiamo quasi trovare una epigrafe simbolica per tutto un mondo arbëresh che resiste e che non vuole scomparire, a partire da una dignità e una unicità affermate con ostinato orgoglio.
La cosa che ci è piaciuta in merito a questa tipologia di inserti è che gli autori – e con loro i narratori interni alle storie – non hanno quasi mai sentito il bisogno di tradurre o di separare con una virgola, come accade ad esempio invece in Carmine Abate, i termini utilizzati in lingua arbëreshe, a riprova del fatto che in loro, nella loro cultura e nel loro bagaglio culturale, essi li considerano semplicemente come parte integrante e ancora attiva della loro identità di giovani trentenni e quarantenni – questo il range anagrafico dei partecipanti alla Prima Edizione di Krenarbëria.
Dal mio punto di vista, come credo si sia percepito, questa cerimonia rappresenta soltanto un primo passo per un premio che credo abbia tutte le potenzialità per crescere e per affermarsi sempre più negli anni a venire.
Mi è chiara soprattutto la sua funzione culturale, lontana dalle sfilate un po’ modaiole alle quali siamo abituati spesso in concomitanza di alcuni premi letterari. Krenarbëria, nelle intenzioni di tutto il gruppo di lavoro del QSPA, vuole essere un ulteriore momento di contatto tra le comunità arbëreshë e l’Albania, nella ferma convinzione che una tradizione così grande e così complessa non possa continuare a vivere senza il sostegno di una letteratura contemporanea che ne tramandi il patrimonio e ne continui a rielaborare le reminiscenze.