di Pierfranco Bruni
Poesia civile? È la gratuita giustificazione della vuoto poetico. Certo, quando si vuole entrare nella discussione che possa riguardare un argomentare riferito alla poesia civile si sancisce già di per sé la morte dell’estetica della poesia detta Poesia. Con il termine di poesia civile si sbatte contro il muro dell’impegno che dovrebbe secondo l’ipotetico siglare un modo di partecipare poesia. Non esiste una poesia civile perché non esiste una poesia trainata dal nordico gordiano di un “engagement”. Le parole della poesia sono dissolvenza d’infinito nel mito e nell’esistere.
Quando si parla o si ritorna a parlare di “poesia civile” si entra nel vuoto, ovvero nel nulla della poesia. La poesia non ha generi. Il non poeta cerca etichette, classificazioni, categorie. La poesia è poesia. Punto. Non ci sono discussioni altre. Si entrerebbe con il termine “poesia civile” in altri ambiti. Ovvero un linguaggio “impegnato”. Ma siamo su altre geometrie geografiche dei linguaggi. La poesia è quella pioggia nel Pineto che è canto e non le ceneri di Gramsci pasoliniane. Su questo non ammetto comparazioni. La poesia è o non è. Come ho avuto modo di sottolineare nel mio recente “Le parole della dissolvenza” di recente pubblicazione da Passerino, ovvero il mio viaggio nel Novecento poetico internazionale.
Certo, chi si considera poeta e non lo è crea e cerca giustificazioni. La confessione diventa genere letterario. Ma la confessione è una metafisica dell’anima che non ha nulla di “civile”. Perché? Semplice. Chi usa il termine “civile’ in poesia è semplicemente una contaminazione ancora ideologica. Ciò è surrogato di cultura e non solo di poesia. La poesia è una filosofia che ha dentro quel vizio assurdo della propria disperazione.
La poesia è la brevità del nostos, della dimenticanza, del ricordato nel tempo della nostalgia. Non è mai impegno o decifrazione dell’essere presente nel sociale. Non esiste in poesia il sociale come incipit visto dal balcone. Il poeta ha una sola finestra che è la conoscenza non conoscente di sé stesso. Usare il termine civile in poesia è sprecare parole sconfitte dalla lacerazione del proprio inquieto esistere. Il resto è nulla o falsificazione o ignoranza.
Il poeta ha dentro di sé il proprio enigma, il proprio sottosuolo dei demoni, l’assurdo del pensiero o il nulla che è espressione dell’ignoranza. Le categorie soprattutto in poesia sono l’emblematico segno di una non poesia. Non è una questione “meramente” crociana ma va oltre e abita quella magistrale visione solcata da Maria Zambrano.
La poesia se è tale è poesia senza catalogazioni di etichette. Non si tratta di specificare un bicchiere d’acqua liscia o con le bollicine. È acqua. Punto. Tanto più quando la parola incontra l’immaginario, il visionario, il misterioso, l’enigma e il tempo. Per riprendere un antico discorso già da me menzionato. Poesia è il Cardarelli della nostalgia. Il resto può essere passione e ideologia. Non certamente poetico senso della parola. Non esiste una poesia civile. Le parole hanno la dissolvenza del vento e degli aironi sulle vie degli scogli. La poesia oggi? È un orizzonte.