INTERVENTO DEL PROF. MATTEO MANDALA’
Signor Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella,
Signor Presidente della Repubblica d’Albania, Bajram Begaj,
Autorità civili, militari, diplomatiche, religiose, accademiche, scolastiche,
Signore e Signori,
quando secoli fa i nostri progenitori decisero di lasciare le coste orientali dell’Adriatico non immaginavano che, una volta giunti in Italia, sarebbero diventati i protagonisti del fenomeno che Pier Paolo Pasolini ha definito acutamente il “miracolo antropologico arbëresh”. Tanto meno potevano immaginare che i loro moderni discendenti, proprio perché epigoni di quel miracolo, avrebbero ricevuto il prestigioso omaggio odierno della visita congiunta dei primi cittadini dei due Paesi a loro tradizionalmente cari, l’Albania e l’Italia. Cari Presidenti, per me è un privilegio rivolgervi in nome della comunità arbëreshe di Sicilia un caloroso sentimento di ringraziamento e il più affettuoso saluto di benvenuto, mirë se na erdhët në gjirin e Arbëreshëvet të Sicilisë!
La storia culturale degli arbëreshë è stata considerata per lungo tempo un paradigma indecifrabile, tanto complesse, poco indagate e perciò oscure risultavano le sue implicazioni sociali, storiche e antropologiche. La definizione icastica di Pasolini, esperto tra i più entusiasti delle minoranze linguistiche in Italia, manifestava stupore dinnanzi alla sopravvivenza plurisecolare della minoranza arbëreshe, la quale pur dispersa in sette regioni dell’Italia meridionale, si distingueva nel variegato mondo minoritario per il suo originale dinamismo. In condizioni di diaspora, gli arbëreshë, non solo mantenevano vive lingua, cultura, tradizioni, memoria del passato, ma avevano dato vita, caso unico tra le minoranze linguistiche italiane, a una moderna letteratura d’arte in lingua albanese, avviato un inedito processo di costruzione di identità, si erano impegnati da protagonisti nei Risorgimenti dell’Italia e dell’Albania, e non avevano lesinato un contributo al filellenismo greco. Per di più, opponendo un netto rifiuto alla sterile venerazione del passato, grazie al fecondo contatto con il contesto culturale che li aveva generosamente ospitati, accettarono con coraggio le sfide dei vari momenti storici al fine di cogliervi le istanze più innovative da adattare criticamente alla propria visione del futuro.
Gli studi odierni hanno dimostrato che il fenomeno arbëresh, lungi dall’essere stato frutto del caso o del miracolo, è stato invece merito esclusivo di una popolazione che, come ha più volte ribadito il prof. Francesco Altimari, nel corso di sei secoli non si è affatto limitata a “conservare”, ma al contrario ha decostruito e modernizzato le componenti fondamentali della sua identità culturale ogni qualvolta che ne ha percepito la necessità. Un dato quest’ultimo già rilevato nei primi anni del secolo scorso dal poeta pianoto Giuseppe Schirò che stigmatizzò aspramente la presunta avversione al rinnovamento degli arbëreshë, per i quali rivendicò invece la forte propensione verso il progresso e l’innovazione. Non la chiusura, dunque, bensì l’apertura all’altro. Sicché l’accoglienza, il dialogo, l’inclusione, il culto straordinario per la differenza sono state le ragioni autentiche del successo degli arbëreshë. E del resto, le tracce di questa loro attitudine, probabile retaggio delle loro arcaiche origini balcaniche, si rilevano profonde e nitide in ogni sfera della loro vita sociale, culturale, religiosa, nel vestiario come nel cibo tradizionale, nelle varietà linguistiche come nella loro straordinaria produzione artistica, letteraria, iconografica, musicale, visuale. Ne sono prova inconfutabile i dati confluiti nel progetto Moti i madh, che le cattedre albanologiche delle Università della Calabria e di Palermo in collaborazione con quelle di Venezia, Lecce e Statale di Milano, con l’autorevole patrocinio del Fondo per l’Ambiente Italiano e dell’Accademia delle Scienze d’Albania, hanno elaborato congiuntamente al fine di candidare la cultura immateriale arbëreshe quale patrimonio universale dell’UNESCO grazie a una proposta transnazionale che vede compartecipi i Ministeri della Cultura d’Italia e d’Albania
Giunti in Italia sul finire del XIV secolo, ben prima che gli Ottomani comparissero nei Balcani, gli arbëreshë si insediarono stabilmente nella Penisola soltanto verso la seconda metà del XV secolo, portando con sé, benché poveri come tutti i migranti, un grande giacimento prezioso: la forte volontà di riscattarsi e di rimboccarsi le maniche in quella che sarebbe divenuta la loro nuova Patria. In Sicilia, gli insediamenti si realizzarono in centri medievali preesistenti sortendo sulla lunga durata effetti benefici per l’economia isolana: da un lato contribuirono a invertire la tendenza disastrosa agli abbandoni rurali e, dall’altro, a offrire un nuovo e innovativo modello di sviluppo economico e sociale destinato a incrementare esponenzialmente i nuovi centri abitati, a promuovere la crescita demografica dell’Isola e a incentivare la produttività di feudi da tempo desertificati. L’innesto di nuove braccia da lavoro straniere fu accompagnato da una politica inclusiva dell’accoglienza e dell’ospitalità che, una volta superate le iniziali difficoltà, diede vita a proficui processi di integrazione. L’approdo in Italia per gli albanesi non segnò soltanto la fine del loro viaggio della speranza, ma si configurò come l’agognata conquista che li avrebbe aiutati a superare d’un colpo la prova più difficile della loro storia: schivare, per dirla con le parole del compianto Ismail Kadare, “il rischio di cadere nell’apatia, nel fatalismo, nell’ossessione” e sviluppare una formidabile e inedita cultura della resilienza.
Le vantaggiose condizioni offerte dalla nuova patria scandirono le tappe dell’evoluzione culturale degli arbëreshë. In Italia fiorì la tradizione scritta della lingua albanese, con la pubblicazione nel XVI secolo del Messale di Gjon Buzuku e del Catechismo albanese di Luca Matranga, le prime due opere pervenuteci. E se a Piana degli Albanesi Luca Matranga fondò nel 1592 la prima scuola che utilizzò l’albanese come lingua veicolare, nel monastero basiliano di Mezzojuso si formarono i monaci che nel XVIII secolo istituirono le missioni in Himara dotandole di scuole in lingua albanese. Memore di questa antica tradizione, la comunità arbëreshe ha rivestito il ruolo di antesignana nelle attività a sostegno del proprio patrimonio linguistico affidando alle Università italiane, che nel numero sono pari a quelle attive in Albania, l’organizzazione della ricerca e della didattica, anche attraverso l’attivazione di appositi percorsi di formazione, di aggiornamento e di specializzazione per i docenti delle scuole primarie delle aree linguistiche minoritarie.
Ancora in Italia si esperirono i primi tentativi di adeguare alla disciplina cattolica la tradizione rituale bizantina. Lo spinoso problema fu affrontato dal Venerabile Padre Giorgio Guzzetta, fondatore nel 1734 a Palermo del Seminario greco-albanese, che con il Collegio di Sant’Adriano divenne la fucina dell’intellighenzia arbëreshe in Italia. L’avvio di una concreta conciliazione tra le due chiese cristiane d’Oriente e d’Occidente, abbattendo ogni forma di pregiudizio e di equivoco e instaurando una innovativa, direi inclusiva, “visione organica dei problemi religiosi”, come ebbe a definirla Bernardo Mattarella, fu uno dei capisaldi del pensiero teologico di Guzzetta. Più tardi, con l’istituzione a Palermo di un Vescovo ordinante per i sacerdoti di rito greco-bizantino e con l’avvio del graduale riconoscimento dello status canonico sui iuris per la chiesa italo-albanese, i migliori allievi arbëreshë del Venerabile Paolo Maria Parrino, Giorgio Stassi e Nicolò Chetta, non solo portarono a compimento l’originale disegno del Maestro, ma garantirono alla comunità ecclesiale arbëreshe di divenire una precorritrice dell’ecumenismo moderno, riconoscimento che più tardi le conferì solennemente il Pontefice Paolo VI.
L’apporto dato alle cause Risorgimentali costituisce uno dei capitoli più esaltanti della storia politica e civile degli arbëreshë. Tra gli artefici delle principali rivoluzioni del 1848 e del 1860, si ricordano Francesco Crispi, Andrea e Gabriele Dara, Pietro Chiara, Giuseppe Bennici, Pietro Piediscalzi, Francesco Bentivegna e, naturalmente, le popolazioni dei centri arbëreshë di Sicilia e di Calabria, che con entusiasmo sostennero la spedizione garibaldina sino al suo epilogo. L’esperienza irredentista maturata in Italia costituì il volano ideologico che permise agli arbëreshë di rivolgere lo sguardo verso i Balcani e di contribuire al raggiungimento nel 1913 dell’indipendenza dell’Albania. Di non minore spessore politico fu il movimento dei Fasci dei lavoratori di fine Ottocento, il primo di ispirazione socialista che si distinse in Europa per la difesa dei diritti dei contadini e per l’emancipazione politica e culturale delle classi meno abbienti e, in particolare, delle donne. Tra i più influenti organizzatori e ispiratori vi fu il medico arbëresh Nicola Barbato, immortalato nel celebre romanzo I vecchi e i giovani con il quale Luigi Pirandello denunciò la prima grande crisi politica ed economica dell’Italia unita. Barbato, autentico educatore dei poveri, amava arringare le popolazioni di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe Jato e di San Cipirello nel pianoro di Portella della Ginestra, che diverrà teatro della strage mafiosa perpetrata il I maggio del 1947 e un imperituro monumento alle lotte degli arbëreshë contro la violenza criminale e la tutela della legalità.
Dall’alto di questa ricca esperienza storica, politica e culturale, dalla loro condizione di cittadini italiani ed europei, gli arbëreshë guardano figuciosi agli sviluppi recenti del processo di integrazione europea dell’Albania. L’auspicio che la visita dei Presidenti Sergio Mattarella e Bajram Begaj possa dare ulteriore impulso all’ingresso a tale storica opportunità per gli albanesi e, aggiungo, per i Balcani Occidentali è pari soltanto alla gioia degli arbëreshë di Sicilia e d’Italia in questa giornata indimenticabile della loro storia contemporanea.