Il facile sensazionalismo sui Balcani non è nuovo ai giornali nazionali, torna come una malattia, si ripresenta di tanto in tanto, quando serve a vendere qualche copia in più seminando un po’ di panico. Ma nell’ultima settimana ci siamo trovati davanti a un vero e proprio fuoco di fila. Una serie di articoli in rapida successione pubblicati dalle principali testate italiane che, utilizzando lo stesso linguaggio, e con la stessa superficialità, come dei cloni propongono tutti la stessa spaventevole immagine dei Balcani quale bubbone purulento pronto a esplodere con putrescente violenza il suo carico di tagliagole islamisti, imam fondamentalisti, schiere di terroristi pronti a farsi saltare in aria nelle nostre città.
Non è nostra intenzione scadere nella lezioncina saputella e un po’ sfigata degli ultra-specialisti che spiegano ai signori del mainstream come si tratta l’argomento in questione. Non ci ascolterebbero comunque. Nostra intenzione è parlare a quei lettori che non hanno intenzione di giacere supinamente a una vulgata sciatta e perniciosa. Cerchiamo dunque di dare un ordine logico alla faccenda, citando i casi più eclatanti e mostrandone le criticità, così che i lettori possano da soli farsi un’idea.
Tutto comincia con un Sventato attentato a Sarajevo. Il pm: “Prevedevano di fare 100 morti” (La Repubblica, 26 dicembre) in cui si riporta la notizia dell’arresto di undici persone a Sarajevo accusate di organizzare un attentato all’estero. Si omette di spiegare che il procuratore che ha ordinato l’arresto, Dubravko Čampara, ancora non ha portato prove (non si trova l’esplosivo, non si riesce a ricostruire il livello organizzativo dei sospetti). Non si dice nemmeno che Čampara è una figura delicata, fratello di Aljoša Čampara, ministro degli Interni della Federazione BiH e figlio di Avdo, braccio destro di Alija Izetbegović durante la guerra. Stiamo parlando di una famiglia importante, con interessi specifici nella gestione del potere e vari nemici politici, tra cui il magnate dei media Fahrudin Radončić, leader di un partito rivale e coinvolto in una delicata inchiesta sul narcotraffico. Alla luce di questi elementi, “l’attentato dei cento morti” è da prendere con cautela e misura, senza cadere nella trappola dell’allarmismo.
Ma la cautela non è di casa ovunque, così leggiamo “I villaggi della Sharia alle porte dell’Italia (e nel cuore dell’Europa)“ (Corriere della Sera, 28 dicembre) in cui l’autore si reca nel minuscolo villaggio presso Velika Kladuša che sarebbe il centro di reclutamento di Husein Bosnić, imam salafita, già vecchia conoscenze delle autorità bosniache. E parla di una “Bosnia che sembra una silenziosa polveriera. La convivenza pacifica di un tempo è diventata tensione“. Il solito luogo comune sulla “polveriera dei Balcani” che, ormai, dopo anni di studi e pubblicazioni specialistiche, diventa francamente incomprensibile se non come prodotto di una ignoranza profonda delle vicende politiche e sociali balcaniche. L’articolo omette invece di parlare di Selvedin Beganović, imam di Velika Kladuša, che per i suoi sermoni contro la violenza è stato accoltellato più volte da parte di seguaci dello stesso Husein Bosnić. Un fatto che mostra con evidenza quanto i primi a opporsi al radicalismo siano i musulmani bosniaci stessi.
La presenza di una sparuta comunità islamista radicale non è da sottovalutare, ma le istituzioni nazionali bosniache, tanto statali quanto religiose, hanno dimostrato di avere gli strumenti necessari per gestire la situazione. Dalla fine delle guerre jugoslave ad oggi non si sono mai registrati attacchi terroristici di matrice islamista, tranne un paio di azioni isolate e senza conseguenze. Dell’ipotetico pericolo jihadista parlammo diffusamente qui, per chi ha voglia di leggerlo. Quello che non è accettabile, poiché non è vero, è che la Bosnia sia un centro di reclutamento per terroristi pronti a colpirci. Non è vero perché la popolazione musulmana di Bosnia è ampiamente secolarizzata, aperta e tollerante, e basta una gita domenicale nel paese per rendersene conto. Non è vero perché i gruppi salafiti sono noti alle autorità che li tengono sotto controllo. Gli stessi musulmani di Bosnia sono l’argine all’estremismo religioso, il quale estremismo – è bene ricordarlo – è proprio di tutte le confessioni.
Sulla questione dei “foreign fighters“, ovvero coloro che dall’Europa (e non solo) decidono di unirsi all’ISIS, vale la pena ricordare – come facciamo qui – che la Bosnia Erzegovina non è certo il paese da cui partono più combattenti. Per quanto le cifre siano dibattute, se guardiamo al numero di foreign fighters per milione di abitanti, vediamo che l’Austria ne ha prodotti più dell’Albania, o che la Gran Bretagna (con circa 3 milioni di fedeli musulmani) ne conta quanti la Bosnia Erzegovina che di fedeli ne ha meno di 2 milioni.
Ma proseguiamo col nostro elenco. E’ la volta di “Balcani, il sogno malato di un Califfato” (Avvenire, 31 dicembre). In questo articolo si traccia “l’escalation” (come si legge nel sommario) dello jihadismo balcanico e per farlo si intervista Vladislav Sotirović, professore in Lituania, ultra-nazionalista serbo che potrebbe facilmente avere un punto di vista poco equilibrato sull’Islam bosniaco. Ma questa criticità non viene presa in considerazione né si spiegano le posizioni dell’intervistato o le sue competenze sul tema.
C’è una questione più sottile, che può sfuggire al lettore meno accorto: continuare a indicare nei musulmani balcanici un pericolo per la stabilità europea significa dare implicitamente ragione ai nazionalisti serbi che proprio su questi argomenti fondavano la propria azione di sterminio, genocidio e pulizia etnica dei musulmani di Bosnia e degli albanesi del Kosovo. Significa, in sostanza, avallare le posizioni di un macellaio come Ratko Mladic. ragionando esattamente come il boia di Srebrenica. Il filo-serbismo italico, molto forte ai tempi delle guerre jugoslave e sancito dalla posizione a favore di Milosevic tenuta dall’allora ministro De Michelis, resta sotto traccia malgrado le evidenze storiche ed emerge, carsicamente, quando l’occasione è più propizia a gettar discredito sui “nemici” di allora.
Dopo la Bosnia, l’obiettivo si sposta sull’Albania e sul Kosovo: “Jihad, la mappa degli espulsi porta in Albania e nei Balcani” (La Stampa, 2 gennaio) la cui pagina interna recita “Dopo la Libia, il pericolo Balcani” con una bella infografica che, ahimé, confonde Montenegro e Kosovo. Un errore che può essere una svista ma che mostra la scarsa abitudine a maneggiare questa regione.
Il problema infatti non è che si parli, seppur con accenti sensazionalistici, di questioni che sono reali, quali l’estremismo religioso, ma che si parli di Balcani sempre e solo in quel modo. Se i giornali italici si occupassero con continuità della politica balcanica, e pubblicassero ponderate analisi sull’Islam bosniaco o albanese, allora articoli come quelli di cui stiamo dibattendo sarebbero meritori. Ma essendo gli unici che appaiono sull’argomento, allora diventano biasimevoli e le omissioni e gli errori che contengono da colpose possono apparire dolose.
Citiamo ancora “Propaganda e reclutamenti, Albania crocevia dei jihadisti” (La Stampa, 2 gennaio). Facciamo notare come l’articolo sia scritto da Washington che, come noto, non è città dei Balcani. E ancora, in prima pagina: “Fra i predicatori albanesi, “infedeli vi uccideremo” (La Stampa, 3 gennaio). Interessante poi l’articolo: “L’imam albanese che recluta per l’Isis: “Il Corano condanna i non credenti” (La Stampa, 3 gennaio) scritto da Mordechai Kedar, israeliano conservatore, professore di letteratura araba ed ex consulente dell’esercito israeliano, contrario alla costituzione di uno stato palestinese. Insomma non esattamente una persona delle più imparziali sulle questioni che riguardano l’Islam e, soprattutto, casomai esperto di cose arabe e non balcaniche.
Già, perché l’Islam balcanico è di origine ottomana, ovvero turca, e non araba. La conversione degli slavi all’Islam è questione complessa e dibattuta, tuttavia è opinione condivisa che non fu forzata, come invece ancora La Stampa sostiene. Trasmettere l’idea di un Islam da sempre violento ed estraneo all’Europa è oggi funzionale alle retoriche dell’anti-terrorismo che, a guardar bene, seminano forse più terrore dei fondamentalisti stessi. Chiudiamo così con “Albania e jihad, cosa succede veramente oltremare” (Il Giornale, 4 gennaio), sapendo che l’elenco si allungherà ancora e che i vari blogger riprenderanno queste notizie, in una corsa senza fine al sensazionalismo. Su Albania e jihad scrivemmo in tempi non sospetti questo articolo ma, per spiegare il fenomeno, traducemmo anche Lo spauracchio del terrorismo nei Balcani, che invitiamo a rileggere.
Lodevole eccezione è questo intervento di Rodolfo Toè, uno dei migliori giornalisti della nuova generazione, uno che a Sarajevo ci vive, uno che queste cose le studia da anni e non si limita ai sentito dire. L’intervento di Toè, pubblicato su Pagina 99, è utile a fare chiarezza in tanta cattiva informazione.
Con questo non si intende sostenere che non esistano fondamentalisti in Bosnia Erzegovina o in Albania, ma che il problema è assai circoscritto e va inserito nel suo contesto.
I luoghi comuni sui Balcani non sono una novità. La famigerata “polveriera” è diventata, nel macello della moderna industria dell’informazione, teatro di ataviche barbarie, inaudita ferocia, terra di agra bellezza e patetico amore, miscuglio esotico per il nostro orientalismo d’annata, vecchio e marcescente come la nostra capacità di guardare al mondo. La stampa nazionale, sempre più spesso espressione di sciatteria, ignoranza e interessi di parte, svolge perfettamente il suo compito consolatorio dandoci da leggere quel che ci aspettiamo. E così i Balcani tornano nelle pagine di cronaca sempre per le stesse attraenti ragioni, ovvero la violenza primitiva, l’instabilità costante di una regione “focolaio” – questo il termine più in voga ultimamente – di pericolosi terrori. E il terrore di oggi è l’Islam, ogni stagione ha il suo d’altronde.
La frequenza e la metodicità di questo genere di articoli apre interrogativi sulle ragioni per le quali vengono scritti. Perché proprio adesso, e perché questo allarmismo? L’impressione è che sia piovuta dall’alto qualche velina e che i giornali si siano adeguati come hanno potuto, improvvisando articoli il cui fine non è parlare dei Balcani ma dello straniero a casa nostra, in un montante clima di anti-islamismo e paura del diverso. I Balcani diventano così uno strumento per azioni politiche tutte nostrane./East Journal