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La Rivista Il Mulino: Tirana, prisma babelico

Ilir Butka, regista e produttore albanese, è il presidente del Qendra Kombëtare e Kinematografisë (Qkk), il Centro nazionale del cinema costituito nel 1997 in Albania guardando al modello francese. La petite difference sta nel budget del sostegno pubblico all’industria cinematografica e audiovisiva: Parigi destina alla filiera circa 800 milioni di euro, Tirana 1 milione di euro, con cui il Qkk arriva ad aiutare una quarantina di film all’anno (fate voi la divisione).

Butka aveva venticinque anni il 6 marzo 1991, quando si ritrovò con una mezza di dozzina di compagni dell’Accademia delle Arti di Tirana e un professore, padre di uno di loro, fra i 7.000 esuli a bordo della nave “Legend”, che coprì a stento il tratto di mare da Durazzo a Brindisi. Un viaggio tra due mondi. Dalla dittatura di Ramiz Alia, erede del satrapo Enver Hoxha al potere dal 1944 al 1985, verso la libertà, verso Lamerica vagheggiata nell’epilogo del film di Gianni Amelio (1994). Il Muro di Berlino caduto nel 1989, in quei mesi convulsi “naufragò” in Adriatico, sprigionando l’esodo dal “mondo ex” di cui avrebbe scritto Predrag Matvejević. Diaspora al culmine con l’arrivo a Bari dei ventimila albanesi della “Vlora” l’8 agosto 1991: un’icona del “secolo lungo” grazie alle fotografie di Luca Turi esposte al MoMA di New York e di recente nel porto di Durazzo.

Così la globalizzazione si rivelò all’Europa in uno dei suoi nodi cruciali – il flusso non solo delle merci, ma anche delle genti – che tutt’oggi, lungi dall’essere sbrogliato, alimenta fobie e risposte irrazionali sul mercato politico. La fuga dal Paese delle Aquile, allora rinserrato nel culto paranoide dei bunker fatti costruire ovunque da Hoxha, è stata raccontata più volte sugli schermi. Lo scrittore spagnolo Jorge Semprun intitolò Le luci di Brindisi il primo progetto televisivo europeo sui clandestini del mare. Luci che lampeggiano nel rapsodico Aprile di Nanni Moretti, in La nave dolce di Daniele Vicari (coprodotto da Butka), in Anja – La nave di Roland Sejko, che era a sua volta sulla “Legend” e oggi lavora all’Archivio dell’Istituto Luce Cinecittà a Roma.

Passeggiando lungo la spiaggia brindisina di Aprile, Moretti ironizza amaramente sui dirigenti della sinistra al governo con Prodi che disertano il luogo della tragedia della motovedetta “Katër i Radës A-451”, andata a picco nel Canale d’Otranto con 120 profughi a bordo dopo lo scontro con una nave militare italiana il Venerdì santo del 1997, mentre in Albania imperversa il caos delle “piramidi finanziarie”. Nondimeno Romando Prodi – forse l’ultimo leader italiano con una visione mediterranea – andò ai funerali di Stato a Tirana e si occupò concretamente della situazione oltre Adriatico, dando avvio giusto nell’aprile del ’97 all’operazione “Alba” che, sotto l’egida dell’Onu, di fatto mise fine alla guerra civile.

Alla “Katër i Radës” nel 2011 Alessandro Leogrande dedica il reportage letterario Il naufragio. Morte nel Mediterraneo e, in seguito, scrive il libretto dell’opera del compositore albanese Admir Shkurtaj, allestita in collaborazione con i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce nel 2014 alla Biennale Musica di Venezia. Tirana poco più di un mese fa ha reso omaggio a Leogrande, scomparso appena quarantenne nel 2017, intitolandogli una strada alla presenza del sindaco della capitale, il trentanovenne Erion Veliaj, che molti indicano come il delfino del primo ministro Edi Rama: socialista, classe 1964, intellettuale e artista, da cinque anni ai vertici del governo. Da primo cittadino di Tirana, nei tre mandati fra il 2000 e il 2011, Rama ha trasformato l’impianto urbanistico, aprendo decine di cantieri e varando fra l’altro il piano per colorare le facciate di molti edifici (oggi per lo più scolorite). E nel 2015 ha dato vita al Center for Openness and Dialogue, uno spazio per incontri culturali e mostre nella hall degli uffici del premier lungo il boulevard Dëshmorët e Kombit, sul cui portone d’ingresso fa bella mostra un’installazione al neon assai contestata dagli oppositori.

L’élite culturale della generazione di Rama e di Butka, ex compagni di Accademia, parla fluentemente l’italiano(oltretutto è molto attivo il nostro Istituto di cultura diretto da Alessandra Bertini Malgarini) e persegue l’ingresso in Europa, per il quale nel 2019 – stando a quanto concluso dal Consiglio europeo del giugno scorso in materia di allargamento – fra Tirana e Bruxelles si apriranno i negoziati di adesione all’Unione (che gli osservatori però valutano non proprio in discesa). I giovani invece preferiscono l’inglese e, a decine di migliaia ogni anno, tentano la lotteria della Green Card, la carta verde per la residenza permanente negli Stati Uniti (l’Albania, con i suoi tre milioni di abitanti, è un Paese giovanissimo, nonostante cresca il peso degli adulti via via che si allunga la vita media).

Questa e altre dinamiche, quale l’incessante inurbamento, contribuiscono a fare di Tirana un “prisma babelico” – per usare una metafora di Eugenio Montale – che rifrange immagini contradditorie: la Grande Moschea con gli alti minareti in costruzione grazie ai finanziamenti turchi; la riqualificazione del mercato “Pazari i Ri” con i suoi caffè e i banchi delle merci che possono ricordare certi scorci della Barceloneta o del berlinese “Hackesche Höfe”; il “Cubo” progettato dall’archistar Stefano Boeri… Il “Cubo” sarà una struttura polifunzionale a pochi passi dall’ex residenza di Enver Hoxha, nel “Blloku” o “Block”, un tempo quartiere della nomenklatura comunista, oggi cuore di una movida che appare meno chiassosa e più elegante rispetto a molte città italiane, ancorché non manchi, di tanto in tanto, il brivido della sparatoria fra trafficanti di droga o l’agguato mosso da sanguinarie gelosie (l’ultimo, lo scorso 4 ottobre).

Di cantiere in cantiere… Dopo molte polemiche, sono in corso i lavori per il nuovo stadio al posto del vecchio e piccolo “Quemal Stafa” firmato dal fiorentino Gherardo Bosio nel 1939, al tempo dell’occupazione fascista; ma infuria una nuova disputa intorno alla volontà governativa di abbattere il “Teatri Kombetar”, il Teatro Nazionale a due passi dalla piazza Skànderberg fresca del restyling voluto da Rama e costeggiata da aiuole di piante officinali, per sostituirlo con una struttura moderna che i privati erigerebbero in cambio dei permessi per innalzare altri edifici, commerciali o residenziali. Progettato nel 1938 in stile razionalista da Giulio Bertè nella zona italiana del “boulevard senza città”, stando alla tagliente definizione che Indro Montanelli affibbiò a Tirana, il Teatro Nazionale infiamma gli animi. È poco più di un rudere non privo del pericolo-amianto, secondo i sostenitori di Edi Rama. Macché, è un monumento da tutelare, costruito ricorrendo all’allora avanguardistico “populit” (un impasto poroso di alghe, fibre di legno e cemento), a parere degli attori e artisti che si oppongono alle ruspe, prontamente appoggiati dal Partito democratico che ancora fa riferimento allo storico leader di centrodestra Sali Berisha. Tra chi difende il “Kombetar” figura Robert Budina (fratello del regista Edmond Budina), che era uno degli interpreti-testimoni di La nave dolce, e sarà in novembre al Tallinn Black Nights Film Festival con l’ultimo film che ha diretto, A Shelter Among the Clouds (Un rifugio tra le nuvole), storia di un pastore musulmano in uno sperduto villaggio delle montagne del Nord, dove si scopre – senza traumi – che la minuscola e malandata moschea era stata una chiesa.

La convivenza, la cooperazione, il progettare insieme creatività e percorsi produttivi: ecco la sommessa e operosa indicazione che viene dal cinema albanese grazie al Balkan Film Market (Bfm), la cui seconda edizione si è appena conclusa a Tirana. È la nuova sfida di Butka, che lo organizza con il Qkk e con un gruppetto di cineasti e giovani manager, fra i quali lo sceneggiatore e produttore Genc Permeti (attivo anche in Italia con la sua Ska-Ndal Production), Adamion Murataj e Rafaela Rica, non senza l’appoggio di partner quali Sehad Cekic e Vassilis Kosmopoulos, direttori del Film Centre of Montenegro e del Greek Film Centre. E poi serbi, sloveni, macedoni, kosovari, bulgari, bosniaci, croati e rumeni. Già, i Balcani del cinema fino a poco fa lacerati da “antipatie” leggendarie come quella che divide i due maestri Goran Paskaljević ed Emir Kusturica, oggi provano a consociarsi e a promuovere scambi con l’Europa, in primis l’Italia, in virtù dei numerosi progetti comunitari trans-frontalieri per l’area adriatica (il Bfm ha dedicato incontri specifici alle film commission di Puglia e Lazio).

L’Albania della tetra cantilena marxista-leninista di Radio Tirana è il passato. I più giovani e i turisti in costante aumento lo ritrovano nei due Bunk’Art – il primo “sepolto” in un bosco alla periferia della capitale, l’altro in pieno centro – allestiti con passione dal giornalista pugliese Carlo Bollino, qui alla guida di un gruppo editoriale. Nei due musei sotterranei sono allineati i ruderi simbolici del tragico Novecento albanese, dal colonialismo mussoliniano alla lunga notte rossa/fossa del regime. In particolare, il Bunk’Art 1 era l’enorme rifugio-labirinto che Hoxha aveva riservato per se stesso, la moglie e la cerchia dei fedelissimi nell’eventualità di un attacco chimico, e custodisce persino una sala per le sedute parlamentari (non che vi fosse molto da discutere…). Una miniera di cimeli e di storie che Bollino ha sottratto all’oblio battendo depositi militari o rottamai. Nel buio dei tunnel splendono volti ed eventi misconosciuti: è il caso delle migliaia di fanti della divisione “Firenze” dell’Esercito regio italiano che dopo l’8 settembre 1943 passarono nelle fila della Resistenza, alcuni dei quali nel Battaglione Gramsci al fianco dei partigiani schipetari (allora pro-Tito). Per non parlare delle tracce – le foto sbiadite, le epistole struggenti – della letterata Musine Kokalari, laureatasi nel 1941 alla Sapienza di Roma, una pasionaria fragile e bella, finita in carcere e quindi costretta a fare la netturbina sino alla morte nel 1983. La sua colpa? L’anticomunismo. Un’accusa che spesso si colorava di tratti shakespeariani nella gelosia degli aguzzini, negli intrighi di palazzo e nella brama perversa di dominio.

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