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“Il rimorso”

Di Klodi Kadillari, autrice del romanzo

Introduzione (l’essenza del pensiero)
Un romanzo che parla della vita vera, quella fatta di lotte, di conquiste, di vittorie, di drammi e di insesorabili cadute nell’abisso del dolore, non può essere scritto senza avere alla base della propria coscienza, alcuni importanti valori, come quelli della giustizia e della solidarietà.

Solo così può crescere un forte sentimento di empatia verso quelle vite “scartate” dalla società, che spesso, nel silenzio, si trovano catapultate in itinerari senza uscita, senza nessuna speranza di riscatto.

Al tempo stesso, lo scrittore che vive l’empatia verso gli ultimi, deve trovare il modo di stabilie con i propri lettori un dialogo efficace per tramettere loro questa sua passione.

A parer mio, se il creatore non vive pienamente tutto ciò, egli diviene inutile ed impenetrabile.

Io non ho mai avuto paura di confrontarmi con la verità.

In questo romanzo ho cercato di avvicinarmi il più possibile alla memoria del passato dell’Albania. Un passato non troppo lontano che, oltre ad esprimere i nostri “egoismi”, creò, nel mio popolo, un grande senso di smarrimento individuale e collettivo.

I cambiamenti che avvenenro all’inizio degli anni ’90, segnarono in profondità l’animo della mia gente e, i postumi delle ferite che causarono, è possibile individuarli ancora oggi.

Quello che, durante il regime “nazional-comunista” di Enver Hoxha, si chiamava e si pensava come un seducente paradiso, una volta che si alzò il velo di menzogne che nascondeva la vera condizione del mio Paese, si rivelò un inferno, un incubo che distrusse la vita a tanta gente.

La reazione successiva, quella caratterizzata dalla fuga nella disperata ricerca di una vita migliore, causò ancora più danni.

Come nel mio precedente romanzo “Il Codice della Rosa”, ho cercato, con tutta me stessa, di entrare, quasi fisicamente, nel mondo dei miei personaggi. Ho voluto comunicare con loro e vivere con loro, il respiro, le preoccupazioni, i dolori e ogni loro tensione.

Non sarei stata in grado di crearli, se non avessi vissuto, io stessa, gli anni della transizione politica ed economica, in Albania.

Non sarebbe stato possibile creare queste storie e descrivere i tanti traumi vissuti nelle famiglie albanesi e, specialmente, dalla donna albanese.

Sono tanti i racconti ascoltati da amici, parenti, cittadini, dai media e dai fatti storici, che riempirono la mia personalità e scrissero nella mia coscienza tantissime verità.

Sono testimonianze che hanno a che fare con i desideri, le speranze, i sogni di una vita migliore. Ma anche con le tragiche cadute dalle quali in molti non sono più riusciti a risollevarsi.

Sono le speranze dei miei concittadini che sognavano, in massa, di allontanarsi dalla realtà che vivevano, sotto la pressione di più di cinquant’anni di dittatura, tra esili, persecuzioni e vendette.

Fu un enorme senso di frustrazione che, una volta recuperata la libertà, si trasformò in un bisogno sfrenato di auto-realizzarsi attraverso la fuga nei paesi dove c’era un maggiore benessere.

Ma questa auto-realizzazione che doveva avvenire a tutti i costi, produsse anche indivdui violenti e spietati, senza scrupoli, che fecero pagare ai più deboli il prezzo del proprio successo personale.

Sono convinta che la mentalità materialista instillata negli albanesi dopo quasi cinquanta anni di dittatura, una mentalità che ha allontanato ogni sentimento di pietà verso le sofferenze delgi altri, è alla base dei risvolti violenti che caratterizzarono gli anni della cosìdetta “transizione”.

Tante fotografie sono impresse nella mia mente e nel mio cuore.

Io non potevo distaccarmene perché mi apparivano ovunque.

E così arrivò il giorno in cui, queste “Immagini tragiche”, si trasferirono nei miei romanzi, attraverso le vicende dei miei personaggi.

Nel romanzo “Il Rimorso” si mescolano diverse trame, ma tutte hanno un’unica linea di collegamento che attraversa le scene.

Questa linea è caratterizzata dall’attualizzazione di quello che in psicologia si definisce “il Complesso di Edipo”, dove Edipo, questa volta, uccide suo padre non per andare a letto con sua madre, ma per vendicare il suo onore e la sua morale.

Ho fatto questo collegamento tra madre-figlio, per la natura intrinseca del loro legame, ed in questo senso il “feminile”, come donna e come madre, occupa il posto principale in questo romanzo.

Ogni tappa dello sviluppo psichico dell’individuo ha delle caratteristiche peculiari da cui è probabile che scaturiscano alcuni problemi. Il Complesso di Edipo (dal racconto mitologico del re greco Edipo il quale uccide suo padre e si sposa con sua madre) si inserisce a pieno titolo nel percorso di formazione della nostra coscienza e diviene una delle tante chiavi interpretative, a livello intra-psichico, delle nostre scelte da adulti.

Per essere più chiara con il lettore accenno brevemente al funzionamento del complesso di Edipo. L’oggetto principale dell’amore di ogni bambino è la mamma. Noi amiamo le sue cure, ne abbiamo bisogno e, in qualche modo, le pretendiamo. La desideriamo in un modo che la dinamica amorosa che ne deriva ha una sua importante complessità. Il maschietto ha un rivale che crea scompiglio nel suo rapporto esclusivo con la madre: suo padre. Suo padre è più grande, più forte, più intelligente e dorme con sua madre, mentre il fanciullo dorme nel suo lettino da solo.

La figura del padre, ad un certo punto dello sviluppo del bambino, diviene quindi, già in condizioni di normalità, un rivale, un “competitor” a cui contendere le attenzioni della madre. Ma in una situazione in cui questo “nemico” si macchiasse anche di comportamenti ostili verso la madre, fino a sfociare nella violenza più brutale, cosa accadrebbe nella psiche del figlio? Che forme tragiche prenderebbe il conflitto edipico?

In questo romanzo ho voluto sviluppare la dinamica padre-figlio, anche a causa dei comportamenti infami del padre, in tutta la sua drammaticità fino alle estreme conseguenze.

Questa dinamica è stata inoltre introdotta non solo per descrivere, nell’ottica Freudiana, la relazione stretta tra madre e figlio, ma soprattutto per fare emergere il ruolo della madre (e della donna) come argine ad una deriva violenta della società.

Un argine debole, che spesso viene travolto, ma che, anche nelle situazioni più tragiche, non abdica alla sua funzione.

Il “femminile” qui, in queste pagine, è un simbolo di verità ed una chiara testimonianza che parla al mondo della condizione della donna albanese nella storia.

Fin dalla creazione del Kanun (codice scritto del diritto consuetudinario, diffuso principalmente nel nord dell’albania), dove la nascita di una bambina non era motivo di gioia in una famiglia patriarcale. La femmina era e si sentiva sottomessa ed inferiore nel rapporto con il maschio. Non aveva il permesso di esprimere le sue opinioni.

Anche i matrimoni venivano celebrati senza prendere in considerazione il parere delle ragazze; il loro destino veniva deciso dalla famiglia, soprattutto dal padre.

La discriminazione dei diritti della donna albanese proseguì (nonostante la propaganda, a questo punto ipocrita, da parte del regime, circa l’emancipazione femminile e la parità dei diritti) anche nell’epoca della dittatura comunista, fino agli esordi degli anni ‘90, quando tante ragazze furono trafficate nei paesi Europei. E in tanti casi, questa discriminazione prosegue anche oggi in una società che continua ad essere inesorabilmente di tipo patriarcale.

Le tante storie al femminile da me ascoltate, quelle che turbarono la mia coscienza, furono l’ispirazione per i miei romanzi.

Attraverso di loro ho dato vita a questi personaggi che, provenienti da un contesto di privazione della “libertà di pensiero”, erano e sono tutti affetti da quella che, in psicologia, si definisce “sindrome da stress post-traumatico”.

Le storie di questi personaggi provengono da una realtà che, ancora oggi, cerca una voce che sappia descrivere una vita vissuta al limite, tra povertà (materiale e spirituale), violenza, uccisione, truffa e incertezza.

Tornando alle vicende narrate in questo romanzo, io ho cercato con tutte le mie forze di penetrare nei dettagli più nascosti di una storia che inizia e termina con un omicidio, secondo l’andamento circolare tipico della narrativa Balcanica, dove spesso la fine delle storie coincide con il loro inizio.

Quello che mi rende orgogliosa è che in nessun momento ho perso il contatto con Sibora, uno dei personaggi principali.
Con lei, mi sono identificata, stabilendo un legame unico, talmente forte, da sentire fino al respiro la sua paura, i battiti del suo cuore e le preghiere che faceva sotto voce.

Sibora, una ragazza sola, bisognosa di affetto, in cerca di aiuto. Attraverso questo personaggio ho voluto dare voce alle tante storie di violenza che hanno subito le ragazze albanesi.

Alle tante cicatrici causate dalle sigarette spente sulla pelle dei loro giovani corpi in quei terribili anni ’90, il periodo della cosidetta “transizione”.

Un “interregno” dove un vecchio ordine era finito e un nuovo ancora stentava ancora ad affermarsi.

È un trauma collettivo dove il dolore invita a non rimanere in silenzio.

Le discriminazioni che accompagnarono le migrazioni di massa, colpirono ogni famiglia albanese, ma le vittime che pagarono caro quegli anni difficili, furono queste ragazze e queste madri che io definisco “sante vergini”, perché, in qualche modo, “purificate” dalle sofferenze vissute.

Sono le loro preghiere, le loro ansie e le loro aspirazioni che, assieme alle storie di tanti bambini cresciuti senza conoscere l’infanzia, mi hanno aiutato a dare voce e vita a questi personaggi.

La vicenda di questo romanzo, inizia nel nord dell’Albania.

Da qui si dipana la trama del mio racconto, da questi luoghi luoghi che caratterizzano le pieghe di un’Albania profonda e periferica.
In questo romanzo ho cercato di descrivere in modo dettagliato le complesse dinamiche morali, sociali e psicologiche che si sviluppano all’interno di ogni storia di violenza.

Lascio al lettore la facoltà di giudicare se sono riuscita o meno in questa impresa.
Sentivo la responsabilità – non solo come femmina, ma anche come artista – di raccontare queste storie, perché non vorrei avere “Il Rimorso” di essere stata complice, con il mio silenzio, di quello che è accaduto (e che ancora accade) nella mia terra.

La vera sfida per uscire da un evento traumatico è trovare una via che permetta alla personalità di riorganizzarsi attorno al trauma stesso.

Si guarisce dal trauma, anche facendo i conti con la verità.

Raccontare la verità è quello che ho cercato di fare.

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