01.03.2021 – 08.50 – Slovenia-Mitteleuropa: Il ministro degli Esteri sloveno Anže Logar ha organizzato un vertice nella località di Brdo con i colleghi di Austria, Ungheria, Cechia e Slovacchia. Tema principale all’ordine del giorno: l’elaborazione di una linea comune da tenere durante il semestre di presidenza sloveno del Consiglio europeo, che inizierà il prossimo primo luglio.
Perché conta: L’incontro può essere visto come la prova di maturità del “Central 5”, il gruppo informale formato l’anno scorso da questi cinque Stati, su iniziativa di Vienna, per coordinare la risposta alla pandemia. Con l’incontro di Brdo, il consorzio mitteleuropeo lancia un segnale molto forte, proiettandosi come soggetto coeso e unito in vista dell’inizio del semestre a guida slovena del Consiglio europeo. Le questioni sul tavolo sottintendono quasi tutte l’auspicio di elaborare una politica estera comune: il processo di integrazione dei Balcani occidentali, le relazioni transatlantiche, i rapporti con i paesi non-Ue e quello con il Regno Unito post-Brexit. Tradotto, la Mitteleuropa prova a portare una voce sola nell’arena internazionale. L’afflato post-asburgico che anima questo consesso è evidente. Al vertice di Budapest, il secondo dopo quello di Vienne, i “Central 5” avevano discusso della possibilità di aprire i confini tra loro, adottando una politica comune verso l’ingresso di cittadini di Stati terzi. Un provvedimento che avrebbe ricreato, seppure solo per qualche mese, un soggetto sovra-statale con libera circolazione al proprio interno su buona parte dei territori che costituivano il cuore dell’Impero austro-ungarico. Significativa, ma non sorprendente l’assenza della Polonia, che assieme a tre di questi cinque Stati (Cechia, Ungheria e Slovacchia) compone il Gruppo di Visegrád, unione che ha celebrato il trentesimo compleanno proprio lo scorso mese. Oltre a non poter rivendicare il comune patrimonio post-imperiale, in quanto delle terre attualmente polacche il dominio degli Asburgo includeva soltanto alcuni scampoli meridionali, la Polonia possiede una taglia che la rende un commensale troppo ingombrante da invitare alla tavola. Da sola ha più abitanti di tutti e quattro i “Central 5” sommati. Nota conclusiva: Trieste farebbe bene a seguire con attenzione l’evoluzione di questo gruppo informale: dei cinque Stati membri solo uno – la Slovenia – possiede uno sbocco sul mare – Capodistria/Koper. Non pare così inverosimile che Lubiana, tra i promotori più entusiasti di questa iniziativa, provi a utilizzarla per perorare la propria causa, convogliando risorse e attenzione su porto di Capodistria, rivale diretto dello scalo giuliano. Promettere di curare gli interessi degli altri quattro partner mitteleuropei durante la propria presidenza potrebbe essere proprio una manovra per accattivarsi le simpatie, ottenendo in cambio qualche vantaggio, come alcune intese commerciali tra gli altri “Central 5” e il porto di Capodistria.
Per approfondire: Uno scalo mitteleuropeo visto da Austria e Ungheria [Limes]
Cechia-Israele-USA: Lunedì 1° marzo Praga ha inaugurato un nuovo ufficio diplomatico a Gerusalemme. Sarà di fatto una sede distaccata dell’ambasciata, che per adesso rimane a Tel Aviv.
Perché conta: I lettori della nostra rubrica non saranno stupiti. Sono mesi che la dirigenza ceca lancia messaggi poco equivocabili, tutti nella stessa direzione: quella degli Usa. La Cechia ambisce infatti a divenire l’interlocutore privilegiato di Washington nella regione, sbaragliando la concorrenza di Polonia (filo-americana fino al midollo ma destinata a venir sanzionata dall’amministrazione per le sue derive antidemocratiche); Ungheria (più autocratica ancora della Polonia, e per giunta filorussa e filocinese) e Slovacchia (visceralmente antiamericana e filorussa, recentemente ancorata alla Germania). Dopo la vittoria di Joe Biden, le autorità ceche hanno quindi presto abbandonato quel poco di retorica sovranista, filorussa e filocinese che avevano accarezzato, per indossare i panni degli atlantisti incorruttibili.
Perfino il presidente Miloš Zeman, un inveterato nazionalista ritenuto il riferimento della frange filorusse e filocinesi presenti nello spettro politico ceco, ha parzialmente ritrattato le proprie visioni, criticando la Cina per non aver realizzato le promesse fatte in termini di investimenti. La decisione di aprire uno “sportello diplomatico” a Gerusalemme, ovvero una pseudo-ambasciata, non è però soltanto un passo in più nella direzione ormai imboccata, ma è un passo decisivo. Si tratta infatti della seconda mossa con cui Praga va ad allinearsi a Washington in un contesto estremamente delicato come quello mediorientale, dopo la scelta di inserire anche l’ala politica (e non solo quella militare) di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche – un secondo regalo a Israele, per inciso. Con entrambe queste posizioni, la Cechia si ribella alla linea Ue, che riconosce come gruppo terrorista solo la branca militare del partito sciita libanese e ha apertamente criticato la decisione dell’amministrazione Tempo di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, città santa rivendicata come propria capitale sia da israeliani che da palestinesi.
Confermandosi un soggetto ultra-pragmatico, Praga sa bene che per l’amicizia di Washington si possono anche rischiare le lavate di capo di Bruxelles. Apprezzabile l’abilità di Praga di riorientarsi subito in base a come soffia il vento: solo lo scorso agosto, il premier Andrej Babiš aveva gelato il segretario di Stato Usa Mike Pompeo dichiarando di ambire a ricevere più investimenti da parte della Cina. Pochi giorni fa lo stesso Babiš non ha esitato a rispedire al mittente dei test per il Covid19 commissionati a un’azienda cinese, che avrebbero dovuto essere distribuiti alle scuole del paese: da filocinese ad anticinese in pochi mesi. Il 6 gennaio scorso, dopo l’assalto a Capitol Hill da parte di orde di fedelissimi trumpiani, sempre Babiš aveva cambiato repentinamente immagine profilo su Twitter, dopo aver tenuto per anni una sua foto con un cappellino simile a quelli con lo slogan “Make America Great Again” indossati dal tycoon americano e dai suoi sostenitori: da filotrumpiano a democratico in poche ore.
Per approfondire: Praga ai ferri corti con Mosca [Progetto Repubblica Ceca]
Balcani Occidentali
Montenegro: Dopo mesi di braccio di ferro con il governo, il presidente Milo Đukanović ha acconsentito alla sostituzione degli ambasciatori presso Serbia, Bosnia Erzegovina, Cina, Germania, Italia, Polonia, Città del Vaticano e Sovrano Ordine di Malta, Emirati arabi uniti.
Perché conta: Il governo tecnico guidato da Zdravko Krivokapić, il primo dal 1991 a non essere espressione del Pds di Đukanović, aveva promesso un cambio di marcia, anche in politica estera. E questo sta facendo. L’elenco dei paesi dove verranno inviati ambasciatori più fedeli all’attuale esecutivo è abbastanza eloquente di quali siano oggi le amicizie più importanti da coltivare, secondo il nuovo esecutivo. La prima è senza dubbio quella con la Serbia e, di riflesso, la Bosnia Erzegovina, o meglio la sua metà serba, quella Repubblica serba dove spadroneggia Milorad Dodik. Già lo scorso 9 gennaio, inviando una lettera di congratulazioni a Banja Luka in occasione della Giornata della Repubblica serba (incostituzionale secondo la Corte costituzionale bosniaca), Krivokapić aveva chiarito da che parte della barricata intende stare. Collocare due fedelissimi a Belgrado e Sarajevo è quindi un passaggio fondamentale per riallacciare i legami con la Serbia e il suo satellite, nominalmente territorio bosniaco. Operazione cui concorre anche la revisione della controversa legge sulle proprietà religiose recentemente approvata dal parlamento montenegrino.
E proprio un’ambasciata era stata teatro dell’ultima scortesia con cui Đukanović aveva provato a peggiorare ulteriormente il rapporto tra Podgorica e Belgrado. Poco prima che, dopo mesi di estenuanti trattative si insediasse il nuovo governo, l’amministrazione uscente aveva espulso l’ambasciatore serbo Vladimir Božović. La Serbia è, peraltro, il primo partner commerciale del paese, sia per l’import (20%) che per l’export (20%). Dopo la Serbia, nella lista degli Stati da trattare coi guanti seguono: la Cina, notoriamente un partner internazionale molto presente in Montenegro, come già ricordato da questa rubrica; la Germania, leader del blocco Ue e quarto investitore straniero in termini assoluti nel paese secondo i dati della Banca centrale; l’Italia, dirimpettaio adriatico e quindi partner imprescindibile; la Polonia, una delle economie più ruggenti dell’intera Ue, nonché peso massimo tra gli Stati della metà post-socialista del club comunitario; Città del Vaticano e Ordine di Malta, partner la cui influenza presso i segmenti più religiosi delle popolazioni è nota; Emirati arabi uniti, secondo investitore estero in Montenegro dopo la Russia. Questo imponente ricambio dei quadri diplomatici potrebbe però non portare a nulla. La litigiosa e frammentata coalizione che sostiene Krivokapić non pare intenzionata a perdurare.
Per approfondire: Montenegro, il nuovo governo che non piace a nessuno [Osservatorio Balcani e Caucaso]
Albania-Turchia-USA: La Corte di appello di Tirana ha bloccato la decisione del governo di estradare in Turchia Selami Simsek, cittadino turco ritenuto da Ankara un “gulenista”, ovvero un membro del gruppo di Fethullah Gülen, responsabile del tentato golpe del 2016 secondo le autorità turche.
Perché conta: Turchia sì, Turchia no, Turchia forse: fin da quando ha ritrovato l’indipendenza (1991), l’Albania è stata accostata alla Turchia, l’erede di quell’Impero ottomano che nelle terre illiriche portò l’Islam, un’efficiente tradizione amministrazione e pratiche culturali tramandatesi fino ad oggi. La scelta di aderire all’Organizzazione della cooperazione islamica già nel 1992 sembrava aver legato a doppio filo Tirana ed Ankara. Anche tre decenni più tardi, l’influenza turca in Albania è in effetti una solida realtà. Al centro di Tirana la Turchia sta per inaugurare quella che sarà la più grande moschea dei Balcani, nel paese si contano molte scuole turche, sono numerosi gli studenti albanesi che si dirigono in terra anatolica per perfezionare gli studi e si fermano a lavorare.
Addirittura, ritornando proprio al dossier Gülen, due anni fa in un parco di Tirana è stata svelata una stele in memoria dei “martiri” turchi dello sventato golpe del 15 luglio 2016. La liaison turco-albanese pare innegabile. Eppure, come dimostrano casi come questo, questo legame non può varcare una linea rossa: quella dell’amicizia con gli Usa, Stato dove risiede il predicatore Fethullah Gülen, inviso al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Le difficoltà che Ankara sta affrontando nel convincere i partner balcanici ad estradare i fuggitivi colpevoli di tradimento della patria, già emerse nel precedente caso che aveva riguardato il supposto gulenista Harun Celik, le ricordano dolorosamente che oggi non può più fare il bello e il cattivo tempo come all’epoca dei fasti della Sublime porta. Soprattutto in Albania, Stato consacrato quasi in vincolo nuziale al protettore transatlantico. Tirana è sì pronta a flirtare con Ankara, ma solo finché Washington non le separi./triesteallnews.it