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Il 18 maggio di un anno fa Battiato. Dal Samsara a Dante, ovvero dall’Oriente all’Occidente

Di Pierfranco Bruni

Il 18 maggio di un anno fa ci lasciava Franco Battiato. Più volte mi sono soffermato su percorsi e intrecci che hanno caratterizzato il viaggio dei linguaggi e dei colori di Battiato. Uno di questi incisi importanti è dentro la visione dell’invisibile e indivisibile e del tempo nell’immaginario della metafora dantesca tra eredità d’Oriente e processi culturali occidentali. L’invisibile, in Battiato, è volo in un invisibile che non resta tale perché è scorcio di orizzonte. Quell’Orizzonte che conosce l’ordine di uno sguardo senza limiti.

Un attraversamento che è un passaggio di dei e di uomini. Il Samsara! Leggere il limite oltre il confine. È come superare l’oltre siepe e navigar nel mezzo di un cammino con la virtù e la conoscenza.

A Dante Battiato si lega proprio per comprendere, in un testamento di vite tra carnalità e corpo, cosa passa tra la virtù e la conoscenza. Proprio nel suo lavoro del 2012 dal titolo “Apriti Sesamo” Battiato mette in gioco il viaggio irto per penetrare il “viver come bruti”. Entra con l’alchimia nel Canto XXVI dell’Inferno di Dante, assumendo Ulisse come navigatore impavido tra vita, tempo e morte in una chiosa lucida e incisiva come: “E mi piaceva tutto della mia vita mortale…”.

Siamo al “Testamento” inserito, appunto, in “Apriti Sesamo”. Dirà ancora: “Il tempo perduto chissà perché,/Non si fa mai riprendere/I linguaggi urbani si intrecciano/e su confondono nel quotidiano”. Un Battiato che intreccia Dante al “Cantico dei Cantici”, sopratutto quando afferma: “Fatti non foste per viver come bruti,/Ma per seguire virtude e conoscenza/L’idea del visibile alletta, la mia speranza aspetta”.

Dante di Battiato è una metafisica che filtra la metafora di labirinto e si racconta nel cerchio magico della danza dei Sufi che sanno guardare le stelle non solo con lo sguardo nello specchio occidentele di Beatrice ma la donna di Salomone che cerchia la luna anche nell’alba.

Così: “Appese a rami spogli, gocce di pioggia/ si staccano con lentezza,/Mentre una gazza, in cima ad un cipresso, guarda”. Fino a raggiungere la contemplante consapevolezza del profondo pensiero: “Peccato che io non sappia volare,/Ma le oscure cadute nel buio mi hanno insegnato a risalire”.

Le cadute nel buio insegnano. È la lezione di un forte testamento che ha le sue radici in tutto la cultura orientale. Ma Battiato sapeva bene che Dante senza una lettura dei ceppi australi orientali non ha respiro oltre il vissuto del passaggio del samsara. Oltre la morte le stelle, ovvero la luce china sui segni dell’infinito incolmabile. Perché si vive sempre il “crescere e il capire” come “volontà” nel mezzo di uno “sguardo feroce e indulgente”.
Ma la “Divina Commedia” non ci offre : “Uno sguardo feroce e indulgente/Per non offendere inutilmente”? Il Dante delle contrapposizioni non è forse quello che ripensa alla libertà che diventa “reciproca di non avere legami” attraverso cosa? “Le più audaci riflessioni”. Infatti Dante visse di audaci pensieri proprio nel momento in cui si contrappose alla teologia delle contraddizioni.
Il viaggio sia in Dante che in Battiato non è altro che un passaggio. Inevitabile passaggio non dalla vita alla morte, bensì dalla vita all’invisibile. Dalla vita alla vita nella reciproca visione della figura di Beatrice che diventa, appunto, vita nuova. Perché in Battiato il “piacere” della vita mortale ha l’infinito in una trasfigurazione immortale dell’invisibile fino a raggiungere mondi universali.

La chiusa di ogni Cantica di Dante è il toccare i mondi degli universi. Ovvero quel “centro di gravità permanente”! L’invisibile di Battiato nel permanente visibile di Dante come specchio dell’universo sono un incontro mistico nel “Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male”. Battiato era a conoscenza dell’importanza della parola e della parola che va oltre l’infinito: “Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati”.

Andare oltre è forse soltanto il finito. Forse. Ma può essere il filo infinito nell’intreccio del filo che diventa la corda tesa tra la memoria e la profezia.

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