Di Emanuel Pietrobon e Lorenzo Vita
La guerra in Ucraina, lo scrigno dei mali che Putin-Pandora ha aperto all’alba del 24 febbraio 2022, ha comportato l’ingresso della competizione tra grandi potenze in una nuova fase. Una fase molto più bellicosa, imprevedibile e volatile delle precedenti, che vede aumentare la centralità delle periferie e velocizzare la compartimentazione del sistema internazionale in blocchi contrapposti.
Nell’Europa continentale ed esterna che pullula di periferie – cioè di conflitti congelati, rimasugli coloniali, separatismi e ventri molli –, il vento caldo della guerra in Ucraina ha significato la riaccensione di antichi focolai e l’aggravamento di tensioni preesistenti. Con le aree comprese tra “serbosfera” e “albanosfera” a concentrare una parte significante delle escalation.
Nel Serbia-Kosovo, più che altrove, si respira spesso un’aria pesante. Le tregue mediate dalla diplomazia europea hanno portato a uno stato di perenne pace di piombo, intrinsecamente fragile, che dà segni di cedimento a cadenza regolare. Le crisi serbo-kosovare del 2021-22 hanno rafforzato la posizione negoziale di Belgrado, dimostrando chi è il reale controllore delle province a maggioranza serba del Kosovo settentrionale, e dunque di Mosca, che dall’agitamento dello spettro di una riapertura delle guerre iugoslave ha tanto da guadagnare.
Tuttavia, screzi lungo i confini tra Serbia e Kosovo a parte, tra i due Paesi la battaglia si combatte anche in un altro campo, molto più grande. Perché la Serbia è impegnata in un’intensa campagna di lobbismo internazionale avente quale obiettivo non solo il mancato riconoscimento, ma anche il disconoscimento del Kosovo.
L’obiettivo di Belgrado: la “taiwanizzazione” del Kosovo
Essere il Kosovo, la linea rossa Nato nei Balcani, non è mai stato facile. Accusata dai detrattori della dichiarazione unilaterale di indipendenza del 2008 di aver fornito al Cremlino il pretesto per intervenire manu militari negli Stati-fantoccio russo-guidati che costellano lo spazio postsovietico, dalla Georgia all’Ucraina, l’ex provincia serba continua a soffrire a causa del riconoscimento parziale a livello internazionale.
Dopo la pioggia di riconoscimenti nelle fasi immediatamente successive alla proclamazione dell’indipendenza, ben 84 dal 2008 al 2011, il Kosovo ha incontrato crescenti difficoltà nell’espansione del proprio circuito diplomatico. Difficoltà legate all’avvio di una contro-campagna da parte della Serbia, e sponsorizzata dalla Russia, avente due direttrici: stallo negoziale e disconoscimento.
Dopo aver concordato la messa in pausa delle rispettive campagne lobbistiche, che è durata approssimativamente dal 2013 al 2020 – registrando brevi riprese a intervalli regolari –, l’aggravamento della competizione tra grandi potenze ha riportato i venti della tensione nell’area. Risultato: la riapertura del fronte diplomatico delle guerre serbo-kosovare.
Il Kosovo nelle sabbie mobili
Se fra il 2008 e il 2011 i riconoscimenti erano stati 84, fra il 2016 e il 2022 sono stati soltanto sei. Nel complesso, secondo Pristina, 117 dei 193 membri delle Nazioni Unite sosterrebbero, a inizio 2023, la legittimità della dichiarazione unilaterale di indipendenza del 2008. Ma i numeri, in realtà, potrebbero essere più bassi. Sarebbero invece solo 84 gli Stati che “riconoscono inequivocabilmente” il Kosovo per Aleksandar Vučić, secondo il quale nove Paesi presenti nell’elenco del governo kosovaro, tra i quali Libia e Burkina Faso – collaboratori stretti, curiosamente, della Russia –, avrebbero ritirato il precedente supporto mentre un decimo sarebbe in dirittura d’arrivo.
La “taiwanizzazione” del Kosovo non è e non sarà portatrice di implicazioni di rilievo per la sua sicurezza fisica, giacché trattasi del perno della grand strategy degli Stati Uniti nei Balcani, ma i riverberi diplomatici sono visibili e tangibili. Riconosciuto da 22 membri su 27 dell’Unione Europea, e da 26 su 30 della Nato, il Kosovo non può, in assenza di unanimità, entrare né nell’una né nell’altra.
L’importanza di chiamarsi Kosovo
Il Kosovo sogna l’Occidente, di cui è già sostanzialmente un membro, ma non potrà formalizzare tale posizionamento – traendone i relativi benefici in economia e sicurezza – fino a che cinque Stati-chiave della Comunità euroatlantica non lo riconosceranno: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. E se convincere i primi quattro sarebbe possibile con le giuste leve, perché la storia dimostra che le identità sono negoziabili, persuadere la Spagna è più complicato in ragione del fattore Catalogna.
L’influenza dei “big” UE che non riconoscono il Kosovo
Sotto questo profilo, è importante sottolineare che il gioco di pesi e contrappesi è estremamente complesso, con un intreccio di interessi anche divergenti tra le nazioni che attualmente non riconoscono il Paese balcanico.
La Spagna, nonostante le recenti parole possibiliste del premier Pedro Sanchez, ha più volte ribadito che un riconoscimento del Kosovo sarebbe contrario ai propri interessi. Questo unisce in modo trasversale la politica spagnola – a eccezione ovviamente dei movimenti indipendentisti – e suggerisce come di fatto sia complesso trovare sponde a Madrid. La conferma è arrivata anche da un recente viaggio di Sanchez in Albania, Paese che da sempre sponsorizza l’autonomia kosovara, in cui il primo ministro spagnolo, pur sostenendo il dialogo tra Pristina a Belgrado, ha confermato la linea iberica del mancato riconoscimento dell’indipendenza unilaterale. In questo, come detto, pesano soprattutto questioni di politica interna che difficilmente potrebbero venire meno nel prossimo futuro.
La Spagna, uscita indenne dal più recente boom dell’indipendentismo catalano, ma soprattutto traumatizzata dalle esperienze basche, non può infatti accogliere un Paese sorto da una secessione e frutto di un conflitto. Troppi i rischi per una Madrid che non può permettersi passi indietro sul “no” deciso a ogni forma di indipendenza regionale.
Anche Cipro non sembra intenzionato a fare passi indietro sul fronte del riconoscimento kosovaro. Nicosia non ha mai accolto l’indipendenza unilaterale di Pristina e ha sempre sostenuto le posizioni serbe, complice in particolare la questione di Cipro Nord. Il discorso che vale per la Spagna, vale pertanto anche per un’isola che già vive al proprio interno una divisione con un’indipendenza de facto della Repubblica turca non riconosciuta dalla comunità internazionale.
Per Cipro è essenziale che nel mondo non sia accettato un cambiamento dello status quo di un Paese come avvenuto tra Serbia e Kosovo, poiché questo innescherebbe un processo politico che coinvolgerebbe inevitabilmente anche la posizione di Nicosia sul proprio nord. Chiaramente le condizioni particolari sono molto diverse, tuttavia a livello puramente astratto si tratta di questioni che per molti nazionalisti sono assimilabili, e che è difficile possano portare a un mutuo riconoscimento fintantoché non vi sia un cambiamento anche nel percorso di integrazione fra il governo di Cipro e la repubblica settentrionale.
Diverso il discorso per quanto riguarda la Grecia, poiché se da un lato essa sostiene le posizione cipriote, e dunque guarda con sospetto la possibilità di riconoscere il Kosovo, dall’altro lato ha ultimamente limato quella che appariva la sua intransigenza. Di recente, i media albanesi e kosovari hanno rilanciato notizie su una possibile accelerazione del riconoscimento di Atene grazie allo sblocco della questione macedone (la Macedonia diventata poi “del nord”). E in effetti da anni il Paese sembra sempre meno netto nei confronti delle posizione kosovare, pur non potendo fare a meno di riflettere anche sul delicato equilibrio interno: la vicinanza di molti nazionalisti ellenici alla causa serba (e prima ancora russa) unita al tema religioso, cioè l’islam del Kosovo in contrapposizione all’ortodossia di Belgrado e delle minoranze serbe, rappresentano temi da non sottovalutare nel dibattito politico.
Interessante anche la posizione della Romania, che se formalmente non riconosce il Kosovo per l’assenza di conformità della dichiarazione di indipendenza al diritto internazionale, poggia in realtà la sua posizione su diverse questioni politiche attualmente difficile da risolvere. In primis ci sono le ottime relazioni con la Serbia, con cui condivide il confine occidentale. Inoltre, Bucarest vive al suo interno il tema del rapporto conflittuale con il secessionismo per una duplice ragione: l’esistenza di una forte comunità ungherese che potrebbe richiedere la separazione dai destini rumeni (specie in vista del crescente nazionalismo di Budapest); gli ottimi rapporti con la Moldavia preoccupata a sua volta dal separatismo della Transnistria.
La Romania, al pari della Grecia, partecipa alla missione Nato in Kosovo avendo di fatto rapporti con il Paese balcanico. Tuttavia, anche in questo caso sembrano esservi delle divergenze al momento insanabili se non a fronte di un cambio di passo della Serbia e di garanzie nei confronti della sua integrazione all’interno dell’Unione europea.
Il rischio per la Serbia
La linea della taiwanizzazione non aiuterà la Serbia a invertire lo scenario creatosi nel 2008, punto di non ritorno da cui dipende l’egemonia euroamericana nei geostrategici Balcani, ma serve il più pragmatico scopo di minare il percorso verso la piena emancipazione del Kosovo, simultaneamente sottoposto a pressioni di natura interna, e, incidentalmente, rallenta il processo di allargamento dell’UE.
Il rientro di Belgrado nel palcoscenico della storia passa, oggi come ieri, dal tentativo di alterare gli equilibri nei Balcani occidentali, sfidando le (grandi) potenze che su di loro hanno posato gli occhi. Le nuove guerre balcaniche sono iniziate e la rediviva Belgrado, forte dell’appoggio di Mosca e Pechino – il cui conto con Washington comincia a maturare proprio qui, nel fatidico 1999, a causa di Allied Force –, tenterà in ogni modo di riscrivere, anche se solo parzialmente, il finale della disgregazione della Iugoslavia.
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