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L’ETERNA GIOVINEZZA NELLA VITA E NELLA POESIA DI MARIA TERESA LIUZZO

di STEFANO MANGIONE ( Poeta – Saggista – Traduttore – Critico letterario )

Maria Teresa Liuzzo

Uno scenario che fa da cornice alla nascita di colei che si rivelerà come la più grande Poetessa calabrese del Secondo Novecento e dei primi decenni del Terzo Millennio, e una delle maggiori poetesse italiane, in assoluto.

Saline Ioniche, a pochi chilometri da Reggio Calabria, a metà degli anni sessanta del secolo scorso era un piccolo paese abitato soprattutto da contadini, coloni, braccianti agricoli, in un contesto sociale che aveva già conosciuto il triste fenomeno dell’emigrazione. Il complesso ”urbano”, per così dire, era costituito da modeste abitazioni, molte a pian terreno altre a due piani, pochissime con più piani, che erano le abitazioni dei più abbienti.

Si trattava di proprietari terrieri, di retaggi di una nobiltà anacronistica e velleitaria, per molti versi grottesca, di borghesi di un certo livello, quali medici, avvocati, burocrati, che, però, abitavano in città e trascorrevano nel paese parte delle vacanze estive, qualche fine settimana, nelle belle giornate. Il paese aveva, ed ha, inoltre alle spalle, a nord-est, le colline, che lasciano il posto, più in alto, alle montagne che volgono verso l’Aspromonte: di fronte, ad ovest, un largo tratto del Mar Ionio, a Sud dello Stretto di Messina, oltre il quale si vede in lontananza la barriera dei monti della Sicilia e, maestoso, l’Etna, perennemente bianco, col suo pennacchio di fumo, anche di giorno, e fiammeggiante in alcune notti. Si vede tramontare, sovente, una luna piena, di colore rosso sangue, che incendia il cielo, trafitto dalla stella del mattino, e le nuvole intorno.

Tale è lo scenario, che fa da cielo e da cornice alla nascita di colei che si rivelerà come la più grande poetessa calabrese del Secondo Novecento e dei primi decenni del terzo Millennio, e una delle maggiori poetesse italiane, in assoluto, Maria Teresa Liuzzo; scenario che emergerà, sovente, nella sua poesia. Verso il declinare degli anni settanta, la poetessa è ancora una bambina. Ha vissuto fino ad allora in pieno contatto con la natura: fiori, alberi frondosi, piante, le stesse zolle dei terreni arati o ”margi”, non sono soltanto l’habitat nel quale cresce e si forma, fortifica il suo corpo, ma è soprattutto la natura, della quale ella assorbe gli umori e le linfe, ne assimila lo spirito e le energie.

Gli odori, gli aromi, i profumi, delicati e forti, che il vento del mattino espande e che si mischiano, talvolta, per lo spirare del vento marino, con quelli salmastri e iodati del mare. La bambina, che intanto cresce, li assimila, li respira, li somatizza, li accoglie nelle proprie vene, ma anche nella mente e nel pensiero, che li elabora e ne fa una seconda natura, che si fonde con la natura originaria. Ne apprende il linguaggio, dialoga con i suoi elementi, ne ascolta e raccoglie le voci, che il vento diffonde, passando attraverso le erbe, le fronde, e i rami; ascolta la musica e i suoni delle rade, ma talvolta, violente, piogge: si offre al sole e ne cattura, anche per il futuro, il calore. Il mare, poi, è per molto tempo solo una visione, vicina ma lontanissima da raggiungere, e non è raggiunto se non anni dopo.

Ella però lo conosce con la fantasia, lo naviga, ne sonda i fondali, tenta di svelarne i segreti e immagina barche, navi e velieri, nel tempo in cui vive e nel passato, che non ha conosciuto. Queste carature saranno, lo ribadiamo, elementi fondanti della sua lirica e influenzeranno la sua visione del mondo. La poetessa, infatti, crea la natura e la vita, la esprime attraverso la parola; la conosce molto più a fondo di coloro che hanno la possibilità di esplorarla, ma non sono poeti. Tutto è dentro di lei ed ella stessa è in ogni dove, quando, nella frequente solitudine delle lunghe notti invernali, con il vento che sibila intorno alla casa, immagina, impaurita, alberi sradicati o torrenti di acqua piovana che invadono le strade del paese. Alte volte, sente il passo delle volpi o delle donnole, intorno alla casa, e l’abbaiare furibondo dei cani.

E, poi, le torride estati, con lo scirocco che spira dal mare, che suscita lunghe veglie; e le albe, che portano la luce, filtrando attraverso le imposte, che crea giochi di colori nel pulviscolo dell’aria. Il suono di campanelli e il belare delle greggi che attraversano il paese. E sono i sereni, magici risvegli. La fanciulla si avvia verso quell’età che precede la giovinezza, quando i segni dell’essere donna saranno evidenti. Cominciano, allora, i turbamenti, i desideri oscuri, le smanie, le attrazioni, che l’adolescente non può comprendere (stati d’animo che emergeranno anche in seguito, e che sono ben evidenti anche nella poesia successiva, e nel presente libro), perché l’innocenza non glielo consente. E, talvolta, si domanda perché arrossisce senza motivo, perché certi sguardi la imbarazzano e al tempo stesso la rendono felice. Allora, l’afa notturna e il sole del giorno, sollecitano le fantasie, generano infatuazioni e innamoramenti, che rimangono virtuali, custoditi, senza che alcuno possa accedere, nel suo cuore. E, poi, li ripone sotto la cenere, perché la vita incalza, richiede il compenso per il solo fatto che ella vive: ed è un prezzo esoso, che comporta altra solitudine, privazioni, incomprensioni, dolore nel cuore e nell’anima.

Quanti versi, sotto l’immagine e l’espressione della gioia, hanno come base ipostatica il dolore! Sì, come la solitudine, ambientale, spaziale e temporale ed esistenziale. A liberarla, allora, come ora, se non nella prassi quotidiana, e non nei rapporti con il contesto sociale e familiare, la soccorre dapprima in senso vago, poi con più chiarezza e pregnanza, la poesia. In essa la poetessa proietta, come vedemmo in ”Radici”, in parte in ”Apeiron” e, molto attenuate, in tutte le pubblicazioni successive, da ”L’ombra non supera la luce”, non considerando ”Genesis”, edita in data successiva a quest’ultima ma scritta in epoca molto precedente, fino a ”Miosòtide”, sulla quale ci soffermeremo in particolare, tutte le vicissitudini giovanili ma, anche tutti i tesori di umanità, che l’hanno accompagnata, proprio attraverso il dolore. L’opera costituisce, insieme con la citata ”L’ombra non supera la luce”, ”L’acqua è battito lento” e ”Ma inquieta onda agita le vene”, uno dei vertici della produzione poetica della Liuzzo. Stile e linguaggio appaiono consolidati; la padronanza della lingua è totale, così come sempre appropriata la scelta lessicale.

Certe, pur rare, oscurità di opere precedenti, sono assenti e l’espressione è sempre luminosa, solare, fluida, non mai enfatica o retorica. Sono dissolti anche inopportuni pudori che, nelle opere iniziali, e in altri autori, sottraggono molto alla poesia. La natura e l’amore, raramente l’amore in senso universale, più diffusamente l’amore tra l’uomo e la donna e, quindi, lo stesso uomo, la stessa donna, sono gli assoluti protagonisti. Il mondo, la stessa umanità non sono soltanto contorni: la natura non è solo lo scenario, il teatro nel quale gli amanti vivono e si amano, ma coincide con essi. Il libro, con esclusione di alcune liriche appare come essenzialmente un moderno canzoniere d’amore. Esso raccoglie e fonde tutti gli anni trascorsi. Scorre in esso l’amore dell’adolescenza e della giovinezza, dell’età adulta e matura, come in una sola canzone, che esalta il canto e il pianto, la gioia e il dolore, che poi, si trasformano in luce, che è quella immortale della vita. Leggendo i versi, essi acquistano una particolare musicalità, esteriore ed interiore; ci sembra di ascoltare, e di fatto ascoltiamo, melodie di ogni tempo; boleri e habaneras, poemi sinfonici e sonate, ma anche canzonette. La parola, poi, assume talvolta, sonorità e suggestioni dannunziane, il realismo appassionato e denso di Neruda, l’anima di Lorca.

E ciò accade perché la parola irradia echi sonori, della natura e dell’anima. L’amore, inoltre, non è mai totalmente carnale, anche se la carnalità è la caratura più evidente: è sempre fuso con lo spirito perché pur obbedendo alla sollecitazione dei sensi, è generato dall’amore che unisce amato e amante, in una fusione d’anima. Emerge una nudità che è sensualità e castità, donazione di sé in spirito, mentre il corpo, a un tempo, dell’uno verso l’altra, suggellata dall’abbraccio e dal bacio, armonia e perfezione di forma. In chi legge le liriche, per certe liriche, il pensiero va ai capolavori di Auguste Rodin, Amore e Psiche e Il bacio, che insieme rappresentano l’amore carnale e spirituale, del tutto umano, ma sospeso tra cielo e terra, che la bellezza esalta e rende immortali. Ma la poesia, del nutrito gruppo di liriche che possiamo definire canzoniere, è forte, densa, sanguigna; è impastata con la terra, con la frutta, acerba e matura, ha sale e nettare, ha petali di rosa e scaglie di spine; ha l’amaro dell’oleandro, l’aspro degli agrumi; il profumo, il verde e l’oro della ginestra e del grano maturo; l’intenso odore del gelsomino.

Ed è sferzata, sfiorata, avvolta da venti, talvolta lievi, freschi e rigeneranti, tal altra roventi, corrispettivo delle oscillazioni del sentimento e delle istanze del suo essere. Non bisogna, però, incorrere nell’errore di usare una chiave di lettura troppo realistica o, almeno, soltanto realistica, perché talune descrizioni, non rappresentano fatti ma, piuttosto fantasticherie, sogni, perché come si sa, la poesia è raramente verità, intesa questa ad litteram, ma più frequentemente è ”finzione”, come bene esprime anche paradossalmente, ma non troppo, Pessoa ortonimoin ”Autopsicografia”: 

O poeta è um fingidor. / Finge tao completamente / quechega a fingir que é dor / a dor que deveras sente. E’ la poesia, infatti, che fa giungere l’amato nella sua stanza, alla quale offre tutta se stessa; la poesia medesima crea la nudità dei corpi, e genera i baci, e favorisce gli amplessi; rende incalzanti i desideri nell’attesa, fa sentire l’amato dentro di sé, attraverso la metafora del fiume che risale alla sorgente; la poesia la rende amante di cielo e mare, la fa cedere ”all’uragano” e addormentare e le suggerisce la confessione ” (… ) ma ardo dentro me di te che vai / contro il mio vento e risiedi nel segno invalicabile dell’oltre” e, poi, ”spogliata di ogni peso / sono fiore che il tuo polline attende”. Ed è un amore, anche se passa attraverso il sangue, che assume un valore assolutamente palingenetico, diventando poesia, perché riporta la luna nel suo cielo ed egli, l’amato è iride, quarzo ed è ogni galassia, ogni stella lontana, ogni pensiero, ogni senso che emerge. E’, insomma, totalizzante, l’amore, come la poesia che l’attraversa, e da lei è colta, ed è una luce astrale, da altro tempo, dove essi furono e ancora sono e che si proietta oltre il tempo. Ecco, dunque, come la parola, che è la stessa poesia, sublima la carnalità, pur non negandola, poiché è necessaria alla stessa vita ed è il suo segreto. Tutto ciò che la poetessa ha vissuto, sentito, amato e sofferto; tutta la natura, ribadiamo, della sua infanzia e adolescenza sono i fattori fondanti della sua lirica. E, per tali motivi essa è sempre nuova, è sempre fresca, è sempre giovane, come l’acqua che giunge a valle dalle alte montagne – che sfiorano e sono metafora del cielo – attraverso fiumi sotterranei. Ed è inesauribile ed eterna, come la poesia.

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