Di Pierfranco Bruni
Siamo al centenario. Il 2024 sarà dedicato a lui. Cercherò di comprenderlo oltre la disperante dettatura tradizionale.
Franz Kafka è un enigma? O forse è una disperazione? Antichi dilemmi hanno sempre circondato in un cerchio immaginario (e esistenziale) l’opera di Kafka. È una scrittura “ingovernabile”, ovvero offre il pretesto per intrecciare stili e labirinti dai quali non è facile uscirne se si ha la presunzione di accostarsi ai suoi racconti e ai suoi romanzi con l’idea di una spiegazione. Nessuna interpretazione è possibile.
Si accetta il suo mondo.
Si accoglie la sua drammaticità. Si ascolta la sua solitudine. In fondo è il personaggio Kafka che si trova in un delirio incantato a narrare e a mettere in discussione i suoi e i nostri fantasmi.
Il processo cosa è? Essere processati è essere giudicati. L’uomo può sostenersi in un giudizio?
Si viene già condannati a priori. Siamo tutti colpevoli perché siamo esseri finiti e mortali. Non c’è enigma. C’è tremore.
Kierkegaard è di casa perché lo intrappola in una malattia mortale che è l’angoscia.
Perché si ha angoscia? Perché a una certa data della nostra età ci rendiamo conto di non essere immortali.
Viviamo come se non si dovesse mai morire, mai finire. In quel momento e in quell’attimo veniamo catturati. Tutto sembra perdersi. Anzi tutto sembra fallire.
Si fallisce. Non siamo per sempre. Qui è l’eterna disperata visione dei nostri cortocircuiti. Si muore. Kafka pur accettando il processo in un castello di anime perse, non accetta la consapevolezza della fine. Il drammatico senso dell’onirico è proprio qui. Anche le metamorfosi sono uno strumento disperante.
Si vive dentro questo disperante atto di timore e tremore. Vogliamo trasformarci per essere altro cercando di abitare una durata. Possibile? L’uomo accetta il processo per tutta una vita intera ma non la fine.
Certo. Dal punto di vista letterario è un innovatore. Un narratore nella teatralità del quotidiano. Riduce il tempo in un solo istante. Poi potrà arrivare l’inferno…