Il periodo attuale è particolarmente complesso per l’intera area balcanica, poiché la regione sembra risentire delle accresciute tensioni internazionali e gli attori chiave paiono interessati a modificare ulteriormente lo status quo.
La prima conferma di ciò, arriva da Tirana, che sta facendo pressioni sugli Stati Uniti per convincerli ad aumentare la propria presenza in loco e rendere l’Albania il paese cardine del sistema d’influenza americana. Come riporta Balkaninsight, infatti, a metà aprile, nel corso di un incontro bilaterale a Washington, il ministro della difesa Olta Khacka si è rivolta all’omologo James Mattis invitandolo a considerare l’ipotesi di stabilire una base, statunitense o della NATO, all’interno del suo paese al fine di rafforzare la presenza occidentale.
Secondo la Khacka, tale richiesta è giustificata dal fatto che “oltre all’intenzione russa di espandere la propria influenza con azioni di destabilizzazione attraverso i servizi segreti, gli investimenti, altri strumenti ibridi o la propaganda dei media e l’istruzione, abbiamo anche visto un incremento dell’azione e dell’interesse di altre nazioni, come Cina e Iran.”
Il segretario alla Difesa, comunque, non ha risposto all’invito, limitandosi a ringraziare Tirana per il proprio impegno all’interno dell’Alleanza Atlantica, e ha concluso dicendo che “pochi paesi della regione sono consci dell’influenza maligna della Russia come l’Albania”.
Alla luce di quanto evidenziato, è possibile fare alcune considerazioni immediate. La prima è che gli USA sono già largamente presenti nei Balcani grazie alla base di Camp Bondsteel, vicino Uroševac (Kosovo), nella quale attualmente vi sono circa 7.000 effettivi (militari e civili). L’attuale comandante è il colonnello Dick Ducich della Guardia Nazionale della California che, come si può intuire dal cognome, è di origine serba.
La sua nomina, infatti, potrebbe essere stata decisa proprio per giustificare la permanenza della KFOR nell’area nonostante questa venga spesso accusata di non fare abbastanza per proteggere i non-albanesi residenti nell’ex provincia serba. Una nuova installazione statunitense o dell’Alleanza Atlantica in Albania, quindi, rappresenterebbe una significativa escalation nella corsa al predominio sui Balcani e rischierebbe di provocare una reazione da parte di Mosca, che può però contare solamente su quella che ufficialmente è una struttura della Protezione civile russa nei pressi di Niš (Serbia meridionale).
Tale eventualità, comunque, dovrebbe quantomeno spingere anche la UE a riflettere circa gli obiettivi statunitensi nella regione, in quanto Bruxelles si troverebbe in forte inferiorità rispetto a Washington per quanto riguarda la presenza militare, nonostante l’ambito sicurezza e difesa costituisca uno degli elementi chiave dell’espansione dell’Unione verso sud-est.
Parafrasando quanto scritto da Slobodan Lekic su Stars and Stripes, comunque, l’elemento chiave su cui si gioca questa partita è quello della percezione esagerata delle reali capacità russe di influire sulla stabilità dell’area.
Per invitare Mattis a prendere in considerazione l’idea di investire su una nuova base, il ministro Khacka non ha fatto leva su minacce tradizionali (terrorismo, separatismo, corsa al riarmo, etc) o provate, ma sfruttato l’allarme generalizzato sull’hybrid warfare di Mosca, tirando a tal proposito in ballo anche paesi poco o non coinvolti, ma che sono rivali conclamati dell’Occidente, come la Cina (che al momento nei Balcani è concentrata prevalentemente sull’ambito investimenti) e l’Iran, che non ha più un ruolo attivo rilevante nell’area dalla guerra in Bosnia.
Questo atteggiamento, largamente condiviso dai membri NATO e supportato dalla stampa, sta contribuendo ad affermare un’idea distorta e “ideologica” della situazione reale. È difficile dire se il riarmo e l’ossessione per la Russia siano preoccupazioni “genuine” oppure sapientemente utilizzate per giustificare un’inversione di rotta, ma il risultato finale rischia di essere foriero di nuova instabilità.
L’individuazione dei competitors non in base al loro ruolo effettivo, ma secondo il loro schieramento in ambito internazionale, ad esempio, sta portando alcuni stati europei a condividere l’idea di un ruolo attivo dell’Iran nei Balcani, quando in realtà sono proprio Turchia, Arabia Saudita e Qatar a perseguire un’agenda ostile all’Occidente grazie ad un sapiente uso di investimenti ed influenza religiosa.
Nonostante ciò possa essere considerato ben più allarmante delle fake news di Sputnik, nulla viene fatto per mettere un freno a queste attività, forse perché si tratta di nazioni formalmente alleate che investono miliardi nelle nostre economie. Infine, non è chiaro perché, nonostante il costante allargamento della NATO e dell’Europa nei Balcani, la minaccia russa sia considerata sempre più grande, tanto da richiedere un ulteriore investimento. Facendo un breve riassunto, infatti, la situazione attuale è la seguente:
- Slovenia e Croazia: membri UE e Alleanza Atlantica
- Albania e Montenegro: candidati membri UE, membri Alleanza Atlantica
- Macedonia: candidata a UE e NATO, con politica filo-Occidentale
- Kosovo: protettorato internazionale, ospita la base americana di Camp Bondsteel (nella foto sotto). Candidato alla UE.
- Bosnia Erzegovina: protettorato internazionale, candidato UE, divisa sull’adesione alla NATO.
Il secondo elemento che pare confermare un mutato atteggiamento Occidentale verso i Balcani è rappresentato dalla notizia, confermata anche dal sito ufficiale del Consiglio di Sicurezza (CdS), secondo cui USA, Regno Unito e Francia sarebbero pronti a sostenere non solo la riduzione o l’eliminazione delle riunioni periodiche sul Kosovo, ma addirittura la revoca della missione delle Nazioni Unite UNMIK in quanto Prishtina è ritenuta in grado di cavarsela da sola.
Come è facile immaginare, tale eventualità ha trovato la forte ostilità della Serbia (che sarà probabilmente rappresentata da Russia e, forse, Cina in seno al Consiglio), in quanto Belgrado teme che una scelta di questo tipo la metterebbe nella condizione di non poter più barattare il riconoscimento del Kosovo con concessioni politiche o territoriali.
Coerentemente, va sottolineata anche l’importante notizia uscita nelle settimane scorse sui giornali kosovari (e poi scomparsa) secondo cui il paese sarebbe pronto ad iniziare l’iter per costituire “vere” proprie forze armate e permettere così il ritiro del contingente internazionale.
Sempre secondo queste fonti, sapendo che allo stato attuale delle cose i rappresentanti serbi non voterebbero un’eventuale legge in materia, l’Esecutivo avrebbe deciso di farsi dare un’apposita delega dal parlamento, in modo tale da non dover modificare la Costituzione, cosa per cui servirebbe appunto l’accordo delle minoranze.
L’iniziativa appena descritta potrebbe essere stata condivisa con Washington, visto che questa per bocca di Wess Mitchell, assistente del Segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, già a marzo aveva dichiarato che “nessuno può mettere un veto sul diritto del Kosovo a sviluppare le proprie Forze Armate”.
Secondo il quotidiano serbo Politika, inoltre, Prishtina sarebbe pronta a spendere circa 40milioni di dollari per acquistare materiale d’armamento da assegnare alle Forze di Sicurezza del Kosovo (nella foto sotto), tra cui artiglieria anti-aerea, lanciarazzi e armi leggere, oltre che elicotteri e carri armati direttamente dagli USA. Il finanziamento per queste operazioni avrebbe dovuto essere approvato dal parlamento lo scorso 30 aprile, ma non è stato erogato in quanto il provvedimento non è stato ancora presentato.
La questione appena evidenziata solleva quindi alcuni punti interrogativi. Il primo è certamente quale sia la posizione reale di Washington nella vicenda.
Non è da escludere infatti che i collaboratori di Trump vogliano giocare su due tavoli, da un lato spingendo il Kosovo a conquistare “sul campo” la propria sovranità, dall’altro continuando a rassicurare Belgrado, con cui vorrebbero mantenere buoni rapporti, che nulla sarà deciso senza il consenso della Serbia.
In questi ultimi mesi sembra esserci stato un effettivo corteggiamento del presidente Vučić, ma l’uccisione di Oliver Ivanović e l’arresto del ministro Djurić a Kosovska Mitrovica da parte della polizia kosovara hanno rallentato il riavvicinamento tra le parti.
Tuttavia, non è chiaro perché gli USA, pur dichiarandosi pronti a raggiungere una soluzione mediata, stiano sostenendo Londra nel tentativo di eliminare il tema “Kosovo” dall’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di mettere fine al protettorato delle Nazioni Unite che va ormai avanti dal 1999.
Oltre a questo, da oltreoceano non è arrivata alcuna smentita ufficiale dopo la comparsa della notizia del possibile acquisto di armi da parte di Prishtina, né le dichiarazioni del premier kosovaro, Ramush Haradinaj, secondo cui un semplice voto parlamentare permetterebbe di dare vita alle Forze Armate nonostante la risoluzione 1244 del CdS ONU sancisca il contrario.
Ecco perché non è da escludere che l’obiettivo di Washington sia proprio quello di mettere la Serbia davanti al fatto compiuto: accettare un Kosovo indipendente e con proprie forze armate (magari con posti riservati ai serbi) in cambio di qualche minima concessione oppure schierarsi apertamente contro questa soluzione e diventare uno stato paria d’Europa. Nel caso in cui ciò dovesse avvenire, non è da escludere che la risposta euroatlantica possa constare nel ricorso degli strumenti già utilizzati in passato e cioè supporto al dissenso interno, campagne mediatiche internazionali ostili o incoraggiamento dei separatismi interni già presenti nel Sangiaccato e Valle di Preševo a forte presenza musulmana, o nella Vojvodina dove è presente una forte componente ungherese.
Foto: US DoD, K-FOR, Kosovo Security Forces e AFP