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Albanesi in Italia: nel limbo previdenziale

L'arrivo in Italia di profughi albanesi, in una foto d'archivio senza data. ANSA/ OLDPIX

Il caso degli albanesi in Italia, una delle collettività più numerose e più integrate, è emblematico anche per la loro condizione previdenziale. Alcuni non potranno avere nessuna pensione, né in Albania né in Italia; altri avranno due pensioni, nei due paesi, ma non potranno totalizzare i due periodi contributivi per godersi prima il meritato riposo

Di Rando Devole

(Originariamente pubblicato dalla rivista “Confronti” nel numero di aprile 2020)

Asime ha cominciato a lavorare in Italia all’inizio del 1999. Tra mille problemi è riuscita a raggiungere circa 17 anni di contributi versati. In Albania ha lavorato poco più di 12 anni. Adesso, per problemi personali non può più lavorare, ritrovandosi in una specie di incertezza previdenziale. Le mancano tre anni per ciascuna sponda dell’Adriatico per maturare il minimo dei contributi versati, ma non può andare in pensione.

Edoardo ha 61 anni e lavora regolarmente in Italia da 28 anni. Quando è partito da Durazzo aveva già maturato in Albania 18 anni di contributi previdenziali. Adesso ha compiuto 61 anni ma non può ritirarsi sebbene abbia lavorato 46 anni di seguito. Sta peggio Ylvi, di 62 anni, che ha perso il lavoro perché la sua azienda è fallita. Dopo 22 anni di lavoro in Albania e 21 in Italia adesso è disoccupato e tira avanti con i pochi risparmi di una vita. Per il sistema previdenziale italiano deve aspettare il 67°anno di età, mentre per quello albanese deve aver raggiunto i 65 anni.

Fatmir è venuto come immigrato in Italia dopo 21 anni di lavoro in Albania. Per diversi anni è stato costretto al lavorare in nero, perché era irregolare, senza permesso di soggiorno. Una volta regolarizzato ha versato i contributi per quasi 17 anni. Poi ha dovuto lasciare l’Italia e andare in Svizzera, dove ha avuto problemi di salute.

Makbule, un’altra lavoratrice albanese, ha già maturato 20 anni di contributi in Italia, dove è arrivata dopo aver regolarmente lavorato per otto anni in Albania. A Xhani, lavoratore di lunga data, risultano quasi 48 anni di contributi, 20 anni in Albania e 28 in Italia. Eppure all’Istituto previdenziale gli hanno confermato che deve ancora lavorare fino a quando non raggiungerà l’età stabilita. Irena ha 64 anni e continua a pulire le stanze di un albergo, anche se ha 19 anni di contributi in Italia e 22 in Albania…

Un accordo bilaterale per le pensioni

Casi del genere ve ne sono a centinaia. Si possono rintracciare anche su internet, dove molti presentano la loro situazione e cercano informazioni per trovare una via d’uscita. Alcuni non potranno avere nessuna pensione, né in Albania né in Italia; altri avranno due pensioni, nei due paesi, ma non potranno totalizzare i due periodi contributivi per godersi prima il meritato riposo. Il sistema italiano prevede un requisito contributivo non inferiore ai 20 anni, mentre quello albanese non inferiore ai 15 anni.

“Conosco tanti casi simili. Cerchiamo di affrontare le varie situazioni ma, purtroppo, manca una soluzione equa e definitiva”, dice Beskida Aliaj, Responsabile del Patronato Inas-Cisl Albania, che opera in Albania da quasi dieci anni e che ha sollevato da tempo questa problematica. La soluzione definitiva dovrebbe essere la firma di un accordo bilaterale Italia – Albania che riconosca ai lavoratori i periodi contributivi maturati nei due paesi. Convenzioni simili sono state firmate dall’Italia e dall’Albania con diversi altri paesi, ma non tra di loro.

“Per i cittadini albanesi che decidono di rimanere in Italia valgono le regole del sistema previdenziale italiano, a seconda degli anni compiuti e di altri requisiti. Tuttavia c’è una fascia di cittadini albanesi che ritorna definitivamente nel paese di origine, dopo aver lavorato per diversi anni in Italia. A loro, in quanto rimpatriati, spetta una pensione che dipende dai contributi versati (almeno 5 anni dopo l’avvio del sistema contributivo) e da alcune condizioni (togliere la residenza in Italia)”.

Infatti, secondo la legislazione italiana in caso di rimpatrio definitivo il lavoratore straniero, che non abbia lavorato con contratto di lavoro stagionale, può usufruire dei diritti previdenziali anche se non sussistono accordi di reciprocità con il paese di origine. “Si tratta di una piccola finestra che rischia di non essere sfruttata, perché molti albanesi non la conoscono. Tuttavia, la soluzione definitiva per tanti altri sarebbe proprio la stipula di una convenzione tra i due paesi in materia previdenziale e di sicurezza sociale”, afferma Beskida Aliaj.

Ingiustizia sociale

Si tratta di un serio problema per molti migranti, principalmente per la fascia di età che si avvicina alla pensione e che ha lavorato negli ambedue paesi. Basti pensare al fatto che nessun albanese può usufruire della Quota 100. Una condizione di ingiustizia sociale. Il problema diventa più acuto se si pensa alla mobilità aumentata degli ultimi decenni.

Molti migranti albanesi, dopo anni di residenza italiana, sono partiti per altri paesi dell’Unione europea e non, aprendo di conseguenza diverse posizioni contributive. Inoltre, l’immigrazione dall’Albania non si è mai fermata. C’è chi vede la soluzione nell’ingresso dell’Albania nell’Ue, il che risolverebbe automaticamente il problema con il riconoscimento dei periodi contributivi. L’Ue ha appena approvato l’avvio dei negoziati di adesione per l’Albania, ma il processo richiede il suo tempo, mentre gli anni passano per tutti.

Una minoranza significativa

Forse è necessario ricordare che gli albanesi costituiscono una delle collettività più numerose e più integrate in Italia, con una lunga storia e con un evidente contributo multidimensionale. Negli ultimi anni si sono susseguiti dichiarazioni favorevoli dai governi italiani e albanesi, promesse di affrontare il problema, impegni di personalità politiche, incontri governativi, gruppi di lavoro, petizioni a sostegno di una convenzione bilaterale, articoli di giornali, gruppi sui social e iniziative promosse dalla società civile. Purtroppo, bisogna riconoscere che, a parte la solita retorica declamatoria, fondamentalmente siamo rimasti allo status quo e non si intravede ancora una soluzione.

A prescindere dal numero degli interessati e dall’eventuale costo economico è ingiusto che donne e uomini che lavorano da una vita non possano andare in pensione, ovviamente in base ai contributi versati nei due paesi. Sono tutte persone accomunate dal sacrificio e da una vita di lavoro, ma anche da un destino beffardo e da una situazione frustrante perché, pur avendo guadagnato il pane onestamente per decenni, non riescono a maturare i requisiti per beneficiare di un diritto sacrosanto. Insomma, la questione prima di essere esaminata dal punto di vista economico e sociale, va valutata dal punto di vista etico.

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