Intervista ad Alban Vercellotti
Alban Vercellotti Mesi, 49 anni, originario di Scutari, cittadino italiano dal 2008, è l’interlocutore ideale per ricordare i 30 anni dai primi sbarchi sulle coste di Puglia. Perché lui, a quel tempo, era ancora al di là del mare, studente di Lettere all’università della sua città natale. E perché, una volta arrivato in Italia, nel 1995, per seguire un percorso formativo, il fenomeno dell’immigrazione albanese lo ha studiato a fondo fino a farne l’oggetto della sua tesi di laurea magistrale in Sociologia, discussa nel 2009.
Che cos’era l’Albania nel marzo 1991?
Un Paese confinato in una sorta di limbo politico. Non più regìme (stavano per arrivare le prime elezioni libere), non ancora democrazia. Ma, fra tutte le opportunità che si annunciavano all’orizzonte, la popolazione non ebbe difficoltà a comprendere che l’unica perseguibile nell’immediato sarebbe stata quella di emigrare.
Che cosa voleva dire vivere sotto un regìme illiberale dal 1945?
Voleva dire vivere male, in una società nella quale l’individualità non contava nulla. Ricordo l’Ordine quasi surreale delle città, il controllo poliziesco, le condanne per assurdi reati di opinione e le carceri sovrabbondanti di prigionieri politici, le parole sussurrate tra gli adulti che cercavano di tenerci fuori, per proteggerci, da certi argomenti, l’ateismo di Stato e le regole rigide del sistema educativo, i divieti, le feste tenute di nascosto ad ascoltare e ballare musica proibita. Tutto era omologato, persino il modo di vestirsi. Ricordo una geografia urbana piatta, monotona, grigia, scandita soltanto da slogan e cartelli propagandistici, la paura di essere costantemente spiati, la chiusura totale verso l’esterno. L’assenza di libertà di pensiero e le verità date una volta per tutte. E non c’era alcuna possibilità di scegliere, men che meno di scegliere il tuo futuro. Se, per sfortuna, avevi qualche avo che era stato invischiato in questioni politiche, non avresti mai potuto progredire nello studio. E se anche avevi una buona biografia familiare e buoni risultati nello studio, il tuo destino sarebbe comunque dipeso dalle necessità dello Stato. Sul finire degli Anni ‘80 e nei primi Anni ‘90 arrivarono anche le ristrettezze economiche, associate ad alti tassi di disoccupazione, specialmente tra i giovani. L’Albania a quel tempo stava vivendo un grande paradosso, tra gli alti tassi d’istruzione giovanile e in genere della popolazione (con un’età media di appena 26-27 anni) e la disponibilità di risorse sempre più limitate per la partecipazione lavorativa dei giovani, da addebitare principalmente ad un’arretratezza tecnologica che si era fatta più grave dopo gli strappi con l’Urss (dopo Stalin) e con la Cina (dopo Mao). Il Paese si reggeva in piedi grazie all’ingegno dei suoi abitanti, che facevano di necessità virtù cercando di aggiustare anche l’inaggiustabile.
Com’era percepita l’Italia?
Verso l’Italia c’era un’attrazione naturale, conseguenza di quella inclinazione genuinamente benevola che gli albanesi hanno da sempre conservato nei confronti degli italiani, ma anche a prescindere dagli stretti rapporti intercorsi tra i due popoli nel corso dei tempi. Le coste italiane sono state meta di ondate migratorie dal ‘400, poi susseguitesi nei secoli successivi. Abbiamo persino diviso, per un breve periodo, lo stesso re (Vittorio Emanuele III). Esiste in generale un’«immaginazione positiva» che riguarda la posizione geografica ma anche l’indole degli albanesi che, nella loro aspirazione di fare parte della civiltà occidentale, hanno da sempre considerato l’Italia come la sua rappresentante più prossima. Questo sentimento è stato ampliato durante il regime, quando l’Italia era ciò che si vedeva di nascosto in tv. Era la finestra aperta sull’Occidente e, pur trasmettendo, come molti avrebbero scoperto di lì a poco, un’immagine distorta della realtà, tratteggiava un mondo completamente diverso, che suscitava grande curiosità culturale alimentando il progetto migratorio di tante famiglie.
Come fu quell’incontro tra popoli nel ‘91?
Fu un film in due puntate. La prima, a marzo del ‘91, è stata bellissima e commovente. Scattò negli italiani una corsa senza pari alla solidarietà, soprattutto in Meridione. La seconda invece, ad agosto dello stesso anno, con l’arrivo di 10- 12 mila persone a bordo del mercantile “Vlora” al porto di Bari, cambiò la percezione delle cose. Fu l’inizio di una diversa narrazione del fenomeno migratorio che spostò l’accento dall’accoglienza all’ordine pubblico creando, da lì in poi, la sensazione di una società costantemente sotto assedio. Gli albanesi sarebbero stati i primi a scontare i pregiudizi sull’immigrazione, fomentati dai media e dalle convenienze politiche, fino a diventare per molti sinonimo di invasori, se non anche di criminali.
C’è, per fortuna, anche una terza puntata. Quella di un’integrazione che ormai non fa più notizia. Quando e come le cose sono cambiate?
Più o meno dai primi anni del 2000. Uno spartiacque, almeno nell’immaginario, fu il delitto di Novi Ligure, quando dall’accusa rivolta a presunti ladri – “slavi e albanesi, geneticamente avvezzi a tali efferatezze”, come ebbe a dire un celebre giornalista tv – si scoprì che la mattanza verso i familiari era stata perpetrata dalla figlia con il fidanzatino. Un altro sostanziale passo furono gli accordi bilaterali di controllo della clandestinità Italia-Albania che aprirono la strada alla normalizzazione dell’immigrazione con ingressi per quote e ricongiungimenti familiari. Il terzo elemento è stato il fattore tempo, che ha portato ad un livello di integrazione dei singoli sempre più importante e a una progressiva emarginazione dei fenomeni di devianza. L’inserimento lavorativo e la stabilizzazione sul territorio hanno aumentato le occasioni di contatto, portando a ridimensionare l’allarme e suscitando maggiore volontà di conoscere. Quando l’immigrato di cui avevi timore è il tuo vicino di casa, il collega di lavoro, il genitore del compagno di scuola dei figli, la tua idea finisce per cambiare.
Come ha affrontato la comunità albanese questo lungo percorso di integrazione?
Con sentimenti contrastanti: da un lato con l’orgoglio per le proprie radici e la tenuta della famiglia, che è stata la base anche di tante fortune imprenditoriali; dall’altro con l’imbarazzo per l’appartenenza ad un gruppo per certi aspetti tra i più stigmatizzati dal pregiudizio etnico, tanto da scegliere, per autodifesa o razionalmente, di mimetizzarsi perseguendo una silenziosa strada di integrazione individuale. Ne è scaturita quella che io ho chiamato “assimilazione selettiva”, ovvero la volontà di assorbire abitudini, aspirazioni e stili di vita della società ospitante per il credito di cui gode, ma senza rinunciare ad alcuni valori di riferimento della cultura di origine. È quel che oggi definisce una nuova identità: non più albanese, non soltanto italiana, degli albanesi d’Italia.
Che messaggio ci può lasciare questo 30° anniversario?
Ci dovrebbe aiutare a ricordare chi erano e da dove arrivavano quei migranti – la storia di umiliazione e di dolore che lasciavano alle spalle, l’ignoto che si accingevano ad affrontare dopo aver reciso relazioni sociali, familiari, amicali costruite in un lungo arco di tempo – e insegnarci a recuperare una dimensione etica nel valutare il fenomeno migratorio. Quella che a Fossano ha animato don Biagio Mondino, all’epoca parroco del Duomo, che prestò accoglienza ai primi arrivati e in seguito diede ospitalità a tante famiglie albanesi, trasformando la sua canonica in una casa, richiamandoci ai sempre attuali doveri di cristiana compassione e di umana solidarietà.