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Nel libro “Il Cristo giacobino” di Domenico A. Cassiano la spiccata figura dell’acrese prof. Francesco Capalbo (1877 – 1930)

di Gennaro De Cicco

“Noi Calabresi siamo, in genere, ignoti a noi stessi; noi siamo i primi a disconoscere i pregi non comuni della terra nostra, noi siamo i primi ad ignorare le manifestazioni più spiccate e più insigni della nostra vita”. Queste affermazioni verità, sono di Francesco Capalbo, storico della cultura calabro – bizantina e degli insediamenti arberischi.
Si tratta di colui che nel primo ventennio del ‘900 fu il continuatore della tradizione laica della Scuola di S. Adriano, dove tenne con grande prestigio la cattedra di italiano e storia e, poi, quella di italiano e latino.

Francesco Capalbo, originario di Acri, figlio di Raffaele, celebre autore delle Memorie storiche di Acri, afferma il prof. Cassiano, nel suo libro: Cristo Giacobino, Cultura e politica nella Calabria arbërisca (sec. XVIII – XX) Aurora Edizioni, era un ottimo docente, che esercitava una incisiva azione educativa e per la non comune cultura, aveva acquistato molto notorietà sugli studenti, ma soprattutto era uno studioso di prim’ordine della storia, della letteratura e della civiltà regionale calabrese. Ancora oggi i suoi studi sulla Calabria Bizantina, sul monachesimo italo – greco ed i suoi rapporti con il Rinascimento ellenistico d’ Italia, si presentano come un complesso di pregevoli intuizioni, di sintesi organiche, frutto di difficili e laboriose ricerche d’archivio e di vivaci ed efficaci interpretazioni di fatti e documenti.

La sua meritata fama di maestro e di studioso infaticabile non è ancora del tutto spenta, vive nella tradizione orale e attraverso i suoi numerosi scritti di storia calabrese, particolarmente relativi al periodo bizantino, sempre puntuali, sempre penetranti e documentati.

È stato il suo un lungo e appassionato lavoro di storico imperniato sulle fonti. Inedito, afferma il prof. Domenico Cassiano – il materiale del lungo saggio “Di alcune colonie albanesi della Calabria Citra” impostato tutto su materiale singolare, rinvenuto. Insomma, un lavoro di ricerca che si distingue dagli scritti sugli Albanesi precedenti, che contengono ripetizioni e considerazioni varie che non hanno come presupposto il lavoro archivistico. Con la conseguenza che molte delle storie scritte sono storie fantasiose e romanzate, fondate su miti e leggende che creano confusione e disorientamento.

“Francesco Capalbo, invece, sull’esempio di Guglielmo Tocci, a cui spetta il merito di avere aperta la via alla ricerca dei documenti, attraverso una minuziosa e puntigliosa esplorazione dei libri parrocchiali della Chiesa Matrice di San Demetrio e dagli “avanzi vetusti” dell’archivio della Badia di Sant’Adriano riusciva a dire – scrive il prof. Cassiano – parole definitive sull’omonimo feudo ecclesiastico del ‘600”.

E aggiunge che il Capalbo dimostrava, attraverso documenti inediti, che gli albanesi immigrati in Italia tra la seconda metà del secolo XV sino alla prima metà del secolo XVII, si insediarono o, meglio furono accolti in preesistenti villaggi indigeni, resisi deserti, perché abbandonati dalla primitiva popolazione per cause oggettive, soprattutto di carattere economiche e sociali. Con dati inoppugnabili nelle tesi del Capalbo, veniva demolita così, il mito del nobili guerrieri che si era creato ex novo nelle comunità in Calabria e nel Mezzogiorno.

Fra l’altro, recentissime e approfondite ricerche hanno messo in evidenza, confermando la tesi del Capalbo, che le immigrazioni albanesi avvennero a gruppi e in tempi diversi e per destinazioni diverse e che importanti nuclei provenivano non dall’Albania, ma dalla Grecia e che assai diversi furono i destini dei gruppi dirigenti albanesi e delle classi popolari.

Giustamente, osserva il Cassiano – analizzando il testo del professore acrese – non deve meravigliare se, nei primi tempi, le popolazioni immigrate, sprovviste di tutto vivessero di scorrerie, furti e di rapine …E che le cose incominciarono a cambiare dopo la stipula di atti e contratti di insediamento…

E ancora, che, nella seconda metà del ‘600, le iniziali ragioni di contrasto con la popolazione indigena erano del tutto cessate e che l’integrazione era progredita e saldamente consolidata.

Interessante anche l’analisi relativa alle contestazioni del ‘700 tra i vassalli e la Corte Badiale a causa delle ricorrenti occupazioni di terreni con il conseguente intensificarsi dei contrasti e delle violenze.

Attraverso l’ampio capitolo sul saggio storico di Francesco Capalbo, appaiono, tuttavia, evidenti molti punti in comune fra i due studiosi. Un esempio su tutti: la teoria relativa alla ricerca delle fonti per scoprire la storia vera delle popolazioni albanesi che è opportuna trovarla negli archivi pubblici e privati e nei libri parrocchiali. E in effetti questo tipo di ricerca è riuscita anche a smontare i molti miti, alimentati dagli storici locali che inventavano tradizioni inesistenti, come quella che consideravano le migrazioni albanesi come grande movimento di un popolo, guidato da signori feudali che volevano insediati nelle comunità albanesi i discendenti di quelle classi aristocratiche, che avevano guidata l’Albania prima della conquista turca o dei cosiddetti “Coronei”, in virtù della quale non pochi diedero un’aureola di presenta nobiltà alla propria famiglia, magari nel frattempo arricchitasi… E anche la presenza di tanti cognomi storici non autorizza a ritenere che i portatori attuali di quei cognomi siano i discendenti di quelle famiglie aristocratiche.

Per il prof. Cassiano, l’opera di ricerca storica del Capalbo è originale e si impone per serietà metodologica e per indiscutibile validità dei suoi risultati.

E resta un punto fermo l’ intuizione del Capalbo sulle origini autoctone della scuola romantica calabrese, il cui retroterra culturale e l’humus fecondo vanno ricercati ed identificati nell’attività educativa, praticata sia pure con orientamenti diversi nel Collegio di Sant’Adriano, dove avevano studiato il Mauro, il Baffi, il Giannone ed il Miraglia e nel Seminario di S. Marco Argentano, ove aveva studiato il Padula …

Ne “La civiltà della Magna – Grecia bizantina o basiliana e i suoi rapporti col rinascimento ellenistico d’Italia”, il prof. Francesco Capalbo illustra “la parte capitale rappresentata dai religiosi di S. Basilio nella civiltà della Magna – Grecia bizantina e nell’età aurea del monachesimo greco di Calabria, rilevando infine come gli ultimi splendori dell’ellenismo si fondano co’ primi gloriosi albori -del Rinascimento ellenistico italiano”.

E in riferimento ai monaci del cenobio di S. Adriano, fondato da S. Nilo nel 955 nei pressi dell’attuale abitato di S. Demetrio Corone, afferma che lavorano e faticano penosamente per guadagnarsi il pane quotidiano.

E che la presenza operosa dei monaci italo – greci determina un processo di aggregazione sociale ed economica, rendendo la vita più sicura e più vivibile ed incoraggiando la formazione dei casali e villaggi i cui abitanti traggono sostentamento dal lavoro nelle terre dei monaci, così, contribuendo alla creazione della ricchezza dei monasteri che, in prosieguo, assunsero anche la dimensione di vere e proprie aziende agricole …

“Codesti diligenti e pazienti Basiliani – osserva il Capalbo – della Magna Grecia bizantina attendono non solo al lavoro delle braccia e ad opere di pietà, ma altresì allo studio e all’insegnamento del greco, e spendono parte delle loro giornate a trascrivere codici greci con nitidi caratteri, vanno legittimamente considerati come i lontani precursori del Rinascimento ellenistico italiano”. E che neanche la conquista Normanna mise in crisi l’ellenismo della Magna – Grecia, anzi – scrive il Capalbo – diede luogo ad un suo rinnovamento procurandogli altri due secoli di vita intensa ed ampiamente nazionale.

Il prof. Francesco Capalbo inoltre, nel suo percorso i studi, traccia anche altri brevi ed efficaci profili di illustre personalità, come quelli di Bernardo Massara di Seminara (Di Barlaam) e del suo discepolo Leonzio Pilato, “per rifrescarne la memoria – scrive – nella terra immemore che diede i loro natali”.

“La notorietà di Barlaam arriva dall’oriente, da Costantinopoli, dove si reca verso il 1328 e dove veramente si può dire che incomincia l’avventura di un cristiano, che coltiva l’utopia dell’unione tra cattolici e ortodossi, tra Roma e Bisanzio. Non meno importante di Barlaam per la diffusione della cultura greca fu il suo discepolo Leonzio Pilato. Boccaccio, rivela il prof. Capalbo, lo tenne in casa per tre anni, dal 1360 in poi, facendosi leggere e spiegare Omero, e menando di gran vanto per avere, primo in Italia, contribuito, a proprie spese, alla conoscenza degli autori greci, ottenendo anche che il Calabrese, accolto fra i dottori dello studio fiorentino, vi facesse pubblica lettura dei poemi omerici ed ai quali eseguì la traduzione in prosa latina di cui non si conosce il luogo”.

Gli interessi culturali del Capalbo, conclude il prof. Cassiano furono essenzialmente incentrati sulla storia del monachesimo italo – greco in Calabria. E poi aggiunge che “gli studi sul romanticismo calabrese con la monografia sul poeta Vincenzo Selvaggi, che costituiscono l’altra linea di sviluppo dei suoi interessi culturali, sono rimasti essenzialmente inediti”.

Nell’anno scolastico 1925 / 26, a seguito della regificazione del Collegio, Francesco Capalbo, fu trasferito alla cattedra di Italiano e Latino presso il Liceo Classico “B. Telesio” di Cosenza, ove morì prematuramente cinque anni dopo, il 29 marzo 1930. Ma era rimasto sentimentalmente legato a S. Demetrio, nel cui Liceo aveva insegnato per un lungo periodo (1908 – 1925), ove erano nati i suoi figli ed era vissuto circondato dalla stima generale della popolazione. Qui c’era il suo piccolo mondo di amici e intellettuali, come, per esempio, il poeta Salvatore Braile, con i quali, di tanto in tanto, ci si riuniva sotto il fresco dei castagni di Calamia e delle querce della Chiusa in spensierati simposi. E ricorda, con struggenti versi d’impronta carducciana, dedicati a S. Braile e N. Gencarelli che “spesso pensoso”, faceva al mattino oppure al tramonto lunghe passeggiate raggiungendo il rione sandemetrese Mormorico, ovvero la parte più elevata del paese, che ben raffigurava un villaggetto antico / di povere casucce e capannelle, e cui poteva ammirare il vasto anfiteatro dell’Appenino che a te di fronte gira e di qua da’ monti ondeggia la pianura, dove ricrea l’alata fantasia, Sibari e Thurio. Dietro a te, l’ombrìa d’erti poggi vestiti di verzura.

A San Demetrio lo riportavano gli anni più belli, trascorsi nell’intenso lavoro “tra libri e carte” e il anche il ricordo della morte della figlioletta Triestinella per la quale scrisse versi delicati e struggenti. A Cosenza, invece, era diventato inquieto e triste. E la malattia della moglie, contribuirà a rendergli più dura l’esistenza.
Gennaro De Cicco

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