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Il cinema drammatico di Totò.


Di Davide Borruto

Quando si pensa a Totò, non si può fare a meno di considerarne e celebrarne quella vis comica che lo rende a tutt’oggi – nonostante siano passati diciassette anni dalla sua scomparsa – uno dei più popolari protagonisti della commedia all’italiana, genere di cui fu, tra l’altro, precursore assieme ad Aldo Fabrizi con il celebre Guardie e ladri del 1951, per la regia di Mario Monicelli e Stefano Vanzina, in arte Steno (i cui figli Carlo ed Enrico avrebbero, decenni dopo, fatto – a loro volta – le fortune del cinema italiano, ponendosi al servizio di più generazioni di attori, dal giovane Abbatantuono a Paolo Villaggio, passando per Calà e Greggio, fino ad arrivare ai cinepanettoni della coppia, poi “esplosa”, Boldi-De Sica) ed assieme a Peppino De Filippo con i vari titoli «Totò, Peppino e…» degli Anni Cinquanta.

Ma accanto a questo aspetto, che è quello maggiormente assodato, appare interessante addentrarsi nel rapporto che Totò ha avuto con il cinema drammatico. Relazione travagliata questa, in conseguenza del fatto che, da un lato, il pubblico “pretendeva” che l’attore si esibisse sempre col suo solito repertorio macchiettistico, punendolo con dei clamorosi flop al botteghino nel caso azzardasse alternative al “solito” filmetto d’evasione; d’altro lato, gli stessi produttori – che vedevano in Totò una macchina per far soldi – non erano disposti a rischiare investimenti in pellicole i cui incassi sarebbero stati verosimilmente bassi. Così, nello scetticismo dei produttori e sotto il fuoco spietato della critica, l’attore rimase intrappolato – fino agli ultimi anni della sua vita artistica e terrena, quando venne “riscoperto” da autori quali Lattuada, Pasolini, Gregoretti e Risi – in ruoli quasi esclusivamente comici e parodistici.

È difficile dire quanto l’attore ambisse ai ruoli drammatici: in talune interviste ricordava quanto fosse semplice far piangere il pubblico con scene stereotipate quali «un violino che suona, una madre che muore ed un bimbo che la invoca», mentre ben altra impresa era riuscire a far ridere. Ma, al contempo, se gli si domandava a quali lavori fosse maggiormente legato, era solito far riferimento alle poche prove drammatiche, forse perché meno conosciute o forse perché consapevole che tali pellicole erano quelle dalle quali meglio traspariva la sua espressività dolente e, talvolta, inarrivabile. Non a caso, tra le sue ambizioni vi era quella di poter girare un film interamente muto, perché – a suo dire – il vero attore non ha bisogno di parole.

D’altro canto, l’attore aveva mosso i primi passi ai tempi dei grandi divi del muto (Chaplin, Keaton, Laurel & Hardy…) quindi sapeva bene come un interprete potesse essere completo pur senza aprir bocca, proprio lui che inventò giochi linguistici e tormentoni largamente conosciuti anche ai giorni nostri. Il primo film puramente drammatico a cui prese parte il Principe fu Yvonne La Nuit (1949), lavoro molto modesto, nonostante il coinvolgimento, oltre che di Totò, di Gino Cervi ed Eduardo De Filippo, in ruoli, tutto sommato, di contorno che plausibilmente servivano a richiamare l’attenzione del grande pubblico. Eppure, il filmetto di Peppino Amato ha il pregio di regalare al pubblico una delle macchiette più divertenti del repertorio teatrale di Totò, ossia quella del bel Ciccillo.

Dopo il primo grande riconoscimento della critica (il Nastro d’Argento guadagnato per la sua prova nel già citato Guardie e ladri), sembra che il cinema autoriale cominci ad interessarsi a lui: il 1952 è infatti l’anno di Dov’è la libertà…?, inizialmente girato da Roberto Rossellini ma, nel corso della sua lavorazione, affidato a diversi registi, tra i quali si vocifera vi sia stato anche Federico Fellini. Il risultato della travagliata produzione è un film che ha il sapore dell’incompiuto e dell’inespresso, pur dando a Totò la possibilità di dimostrare un potenziale drammatico non indifferente. La macchina da presa si sofferma spesso sul volto sofferente e silenzioso del protagonista, un barbiere che ha scontato vent’anni di galera per difendere l’onore della moglie e, una volta libero, si accorge che tutto quello in cui credeva era una menzogna: la moglie lo tradiva sistematicamente e lo aveva sfruttato per liberarsi dell’amante, la famiglia della donna si era arricchita a spese degli ebrei durante la guerra e, rincontrandolo, cerca di combinargli un matrimonio con una ragazza già incinta. Di fronte a tanta malvagità, tenterà – tragi(comi)camente – di rientrare in carcere.

Orson Welles e Totò nel grottesco L’Uomo,
La Bestia e la Virtù (1953)

Un’altra possibilità di mettersi in luce in panni non puramente comici sembra gli venga offerta nel 1953, quando viene chiamato a recitare al fianco di Orson Welles e Vivienne Romance nella riduzione cinematografica de L’Uomo, la Bestia e la Virtù di Luigi Pirandello. Il risultato di questo esperimento è un film grottesco, dove Totò regge la scena ad armi pari col divo americano ed offre una prova molto calibrata. Ma l’opera viene ritirata subito dai cinema per ostruzionismo da parte degli eredi del grande drammaturgo siciliano e finisce nel dimenticatoio,
tanto da riapparire solo negli Anni Novanta e in una copia in bianco e nero (l’originale a colori sembra essersi deteriorato irreparabilmente.

Lo stesso anno viene diretto dall’amico Aldo Fabrizi in Una di quelle, altro lavoro ove il Principe affronta – come nella pellicola pirandelliana – il tema del sesso al di fuori dei consueti numeri da latin lover di scarso successo. Se il professor Paolino, di matrice pirandelliana, aveva messo incinta la madre di un suo alunno e doveva trovare il modo di attribuire la paternità al marito della sua amante (il rude capitano Perrella), il personaggio interpretato per Fabrizi è quello di un facoltoso uomo di campagna che vuol passare una notte nella Capitale in giro per locali notturni, alla ricerca di un rapporto “mercenario”. Si imbatte in Maria (interpretata da Lea Padovani), vedova con figlio a carico che, nella disperazione di uno sfratto imminente, decide di tentare la via della strada. L’idea di Aldo Fabrizi di impiegare prevalentemente Peppino De Filippo per i siparietti comici ed affidare a Totò le parti melodrammatiche si rivela felice, ma la sceneggiatura, troppo povera e convenzionale, penalizza il lavoro, funestato – a quanto sembra – persino da liti tra il Principe ed il regista.

Dopo aver inaugurato il cinema italiano a colori, Totò inaugura anche il 3D con il pessimo Il più comico spettacolo del mondo, del quale però passa alla storia la preghiera del clown recitata magistralmente dal protagonista, dalla mimica efficace nonostante il pesante trucco di scena. Vittorio De Sica, con il quale avrebbe dovuto girare anche Il giudizio universale, nel 1954 lo vuole per L’oro di Napoli, tratto Giuseppe Marotta, e gli affida il ruolo tragicomico del pazzariello don Saverio, vessato dal guappo don Carmine che lo ha privato della libertà, stabilendosi come amico in casa sua ma comportandosi da dispotico capofamiglia, trattandone moglie e figli come suoi servitori. Di grande pathos la scena in cui si ribellerà dell’esasperante e sgradito ospite, umiliandolo in piazza, arrivando a gettarne – in segno di dispregio – gli abiti dal balcone, approfittando (meschinamente, in un certo qual modo) di un momentaneo malessere occorso al malavitoso.

Nel medesimo anno, Totò si misura nuovamente con Pirandello, incarnando Rosario Lochiàrchiaro nell’episodio La patente, episodio del film Questa è la vita. Come da canovaccio pirandelliano, la storia è apparentemente comica ma, nel dialogo finale del protagonista, denuncia tutta la sua drammaticità: Lochiàrchiaro, additato dalla società come potentissimo menagramo, perde il lavoro, vede la figlia abbandonata dal promesso sposo e rimane in disgrazia, dovendo badare anche a una

moglie paralitica. Da lì, la bislacca idea di pretendere una patente di jettatore, onde potersi giovare dell’infausta fama per arricchirsi, sfruttando la malvagità di coloro che lo hanno gettato in rovina. Siamo uomini o caporali? (1955) non è un’opera propriamente drammatica, ma presenta innegabilmente qualche venatura malinconica: la trama prende spunto da un celebre motto di Totò, che ha modo – nelle prime battute del film – di spiegare come il mondo possa dividersi in due categorie, quella delle persone oneste – destinate a faticare per qualsivoglia traguardo – e quella di coloro i quali vengono additati cumulativamente come caporali, ossia vessatori, degli incompetenti, degli ignoranti che, nonostante tutto, riescono sempre a sopravanzare tutti gli altri. La pellicola vede un ottimo Paolo Stoppa dare efficacemente volto ai vari caporali che il povero protagonista deve affrontare, l’ultimo dei quali gli ruba persino la donna amata.

Totò torna ad affacciarsi dalle parti del cinema impegnato nel 1960, diretto ancora una volta da Mario Monicelli in Risate di gioia, al fianco di Anna Magnani, vera mattatrice del film. Il ruolo interpretato stavolta è quello di Umberto, anziano attore in disarmo che cerca di sbarcare il lunario con delle piccole truffe, al quale viene affidato il compito di fare da spalla a Lello, un ladro giovane e senza scrupoli (un efficace Ben Gazzara) per un colpo organizzato da un amico comune (interpretato da Fanfulla, splendido caratterista del cinema di quegli anni). Il personaggio di Umberto sfiora più volte il patetico, bistrattato e quasi malmenato dal giovane e spregiudicato partner. Il film costituisce l’unica occasione per vedere insieme la coppia Totò-Magnani, che negli Anni Quaranta aveva spopolato nell’Avanspettacolo.

Due anni dopo, Totò darà il volto allo Smemorato di Collegno, con cui si ricostruì, in chiave tragicomica, la vicenda di un reduce di guerra che aveva perduto la memoria e non riusciva più a ritrovare sé stesso. Nel corso della trama, ravvivata da due spalle di lusso quali Nino Taranto ed Erminio Macario, ben tre individui reclameranno la conoscenza dell’uomo, ma lo smemorato riuscirà a smentire ciascuno di loro, mettendo a nudo come fossero disposti ad approfittarsi della disgrazia occorsogli per trarre biechi benefici. La storia resta inconclusa, perché il protagonista non otterrà di risalire alle proprie origini.
Il 1963 è l’anno de Il comandante, reclamizzato ai tempi come il «centesimo film» dell’attore partenopeo, nonché il suo primo ruolo totalmente drammatico: in verità, entrambe le affermazioni erano false, dal momento che i film girati da lui girati in totale, compresi quelli ad episodi e quelli in cui si limita a brevi comparsate, sarebbero stati in totale novantasette nel 1967, anno della sua morte. La pellicola, sebbene non sia la prima totalmente drammatica, offre forse la prova non comica più significativa di Totò, al quale viene affidato il personaggio di un anziano colonnello, promosso generale e, simultaneamente, messo a riposo per limiti di età. Una volta strappato all’ambiente militare, l’uomo si rende conto di non conoscere nulla delle abitudini e dello stile di vita della moglie (Andreina Pagnani) e del resto della sua famiglia.

Gradualmente, l’uomo avverte la sua inutilità ed alienazione, sociale e familiare, non riuscendo a rassegnarsi ad una vita da semplice pensionato. Per cercare di risollevargli il morale, la moglie stipula un accordo con un’azienda edile gestita da due uomini senza scrupoli, ottenendo di farlo impiegare al costo di pagare lei stessa, di nascosto, lo stipendio al marito (a tale idea si rifarà Paolo Villaggio in Fantozzi va in pensione del 1988). L’uomo, pur di mantenere il posto, accetta compiti mortificanti (quali fare da garzone e da centralinista), fin quando non apprende la tragica verità: la moglie pagava il suo stipendio e tutti, sia in casa che in ufficio, ne erano a conoscenza. A fronte di questa umiliazione, l’uomo tenta il suicidio e, non riuscendovi, si chiude in un ostinato mutismo nei confronti dei suoi familiari. Approfittando della situazione, i due proprietari dell’azienda lo richiameranno a lavoro, abbagliandolo con la carica di Presidente ed un lauto stipendio (anche questa idea verrà sfruttata da

Villaggio in Fantozzi alla riscossa del 1990), facendolo finire sul lastrico. Il film, ambizioso ed interpretato impeccabilmente dal protagonista, sarà l’ennesimo flop al botteghino.

Gli ultimi anni della sua vita, Totò costituirà un breve ma intenso sodalizio artistico con Pier Paolo Pasolini, che lo vorrà per tre pellicole: Uccellacci e uccellini (1966), La Terra vista dalla Luna (1967) e Che cosa sono le nuvole?, uscito postumo nel 1968. Il film del 1966 è un’opera molto discussa che ha suscitato (e suscita tutt’oggi) pareri fortemente contrastanti.

Sebbene unanimemente sia stata riconosciuta la prova superba di Totò (che vincerà il suo secondo Nastro d’Argento), il film di per sé appare troppo ermetico e prolisso. Resta comunque notevole lo spezzone in cui Totò e Ninetto Davoli interpretano due frati incaricati da san Francesco di predicare l’Amore ai falchi ed ai passerotti, missione in cui i due falliscono, nonostante gli enormi sforzi. Che cosa sono le nuvole? è invece un episodio di Capriccio all’italiana, passato alla storia per il sol fatto di essere l’ultimo di Totò, il quale recita anche nello spassoso primo episodio Il mostro della domenica. L’episodio pasoliniano comprende un cast notevole, con Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Domenico Modugno.

La trama è ambientata in teatro di periferia, ove delle marionette – dotate di vita propria – devono inscenare l’Otello. Quest’ultimo è impersonato da Davoli, mentre è Iago. La marionetta Otello, “appena nata”, si affida alla marionetta Iago quale guida spirituale, ma resta presto deluso dal ruolo di traditore che il copione gli ha assegnato, per poi restare sconcertato quando si rende conto che, volente o nolente, dovrà uccidere Desdemona. Il pupazzo si rende conto che nessuno è libero di agire come vorrebbe e che la Verità – come suggerito da un intenso Totò – è un bene troppo prezioso per esser nominato con leggerezza, dovendo essere piuttosto custodito gelosamente in fondo al proprio cuore.

Il pubblico dozzinale che assiste alla recita non riesce a scorgere il dramma interiore dei personaggi e li fa a pezzi. Ormai inservibili, Iago e Otello vengono gettati in una discarica per i rifiuti, dove verranno per la prima volta a contatto con il cielo, restando incantati dalle nuove, quella «straziante e meravigliosa bellezza del Creato».

Le prove drammatiche di Totò costituiscono dunque una parte minore della sua filmografia, ma non per questo meno significativa. È infatti sufficiente a dar bella mostra delle sue grandi potenzialità, purtroppo rimaste quasi del tutto inutilizzate. Come già accennato, solo negli ultimi anni della sua carriera gli furono avanzate proposte che ne avrebbero potuto determinare una rivalutazione quand’ancora era in vita: tra i progetti a cui non ha potuto prender parte, il celebre film (mai realizzato) di Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, Il padre di famiglia di Nanni Loy (di cui ebbe il tempo di girare una sola scena) o Il circolo di Pickwick, sceneggiato tratto da Dickens e girato da Gregoretti nel 1966.

Viene spontaneo domandarsi cosa sarebbe stato se Totò avesse avuto qualche occasione in più di cimentarsi con copioni drammatici, poter girare quel che è stato per Sordi La grande guerra o quel che furono i film di Fellini per Marcello Mastroianni. Non è difficile credere che, quel punto, Totò avrebbe ottenuto quel che gli è mancato nella sua carriera, ossia un riconoscimento internazionale: pur avendo lavorato con attori quali Fernandel, Louis De Funes, Orson Welles e Walter Pidgeon, non ebbe mai la possibilità di una produzione che potesse essere pienamente apprezzata all’estero, giacché la sua comicità, costruita sulla mimica ma anche su giochi di parole, era ed è probabilmente impossibile da rendere attraverso un adattamento in altra lingua (come ebbe a dire lui stesso, commentando il doppiaggio francese di Totò sceicco).

Tale difficoltà sarebbe stata senz’altro superata se avesse potuto girare qualche film d’autore drammatico di circuito internazionale. A quel punto, probabilmente anche il resto d’Europa e del mondo si sarebbe potuta accorgere della qualità di questo grande protagonista del cinema e del teatro italian

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