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Cosa può fare l’Italia per il Kosovo

Il Kosovo è uno dei Paesi più poveri d’Europa, fondato sulle rimesse degli emigrati ma aperto al commercio. L’Italia ha un ruolo di primo piano nel Paese.

L’analisi di Alessandro Napoli.

C’era una volta un Paese che era provincia autonoma all’interno di un altro, più esteso e popolato. Quest’ultimo, a sua volta, faceva parte di una Federazione, uno Stato ancora più ampio e popolato. Il Paese in questione si chiama Kosovo e dal febbraio del 2008 si è dichiarato indipendente. La sua indipendenza è riconosciuta da circa cento Stati, ma fra quelli che non la riconoscono ci sono cinque Stati membri dell’Unione Europea: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. Lo Stato da cui ha dichiarato la propria indipendenza (la Serbia) ha circa sette milioni di abitanti, mentre il Kosovo ha una popolazione che sfiora i due milioni. La Serbia si riferisce al Kosovo con l’acronimo KiM (Kosovo i Metohia) e tuttora lo ritiene parte del proprio territorio, in forza del fatto che lo stesso viene considerato come culla della civiltà nazionale (“Stara Srbija”, e cioè “Antica Serbia”), costellato com’è di monasteri ortodossi e di testimonianze millenarie della presenza slavomeridionale nell’area.

IL KOSOVO IN NUMERI

Il Kosovo è uno dei Paesi più poveri d’Europa, con un reddito pro capite a parità di potere d’acquisto sotto i 12.000 dollari e un elevato tasso di disoccupazione (attorno al 30%), decisamente più accentuato nella componente giovanile (48%). La speranza di vita alla nascita è di settant’anni per i maschi e quasi settantacinque per le femmine, valori comunque ancora piuttosto lontani dai corrispondenti valori medi sia euro-occidentali sia euro-meridionali.

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La composizione del valore aggiunto per settore di attività registra ancora un forte contributo dell’agricoltura (appena sotto il 12%) e dell’industria (17,7%), con un settore terziario ipertrofico che copre il resto. L’economia si regge molto sulle rimesse degli emigrati (contano per il 18% del Pil) e sugli aiuti internazionali. Il Kosovo mostra una forte apertura al commercio internazionale, con un valore degli scambi sopra il 77% del Pil. Il saldo degli scambi con l’estero, nonostante recenti più che apprezzabili incrementi del valore delle esportazioni, presenta però un segno marcatamente negativo: il valore delle esportazioni è di 750 milioni di euro, contro uno delle importazioni che, secondo il più recente dato disponibile, si attesta sopra i 4,65 miliardi di euro.

IL RUOLO DELL’ITALIA

L’Italia ha un ruolo di primo piano nel Paese. Va innanzi tutto sottolineato che detiene il comando della missione internazionale (KFOR) di stabilizzazione delle tensioni denominata Joint Operation Enterprise, che impiega un totale di 3.400 persone. L’operato italiano è in generale apprezzato sia da albanesi sia da serbi sia dai partner dell’operazione. L’Italia è poi fra i principali clienti e fornitori commerciali, in entrambi i casi posizionandosi al quinto posto (a pari merito con la Germania per quanto riguarda la posizione di cliente). È, infine, una destinazione importante dei movimenti migratori in uscita. In sintesi: l’Italia è importante per il Kosovo e il Kosovo, in tutte le sue componenti, è importante per l’Italia e per gli interessi italiani nella “regione”.

LA COMPOSIZIONE ETNICA

Il Kosovo, come gran parte dei Balcani del resto, è un Paese multietnico, ma la diversità nei comportamenti demografici degli slavi da un lato e degli albanesi dall’altro ha avuto come esito di lungo periodo una composizione della popolazione che registra oggi una netta prevalenza della componente albanese rispetto a quella slava, sebbene i comuni del Nord conservino comunque una prevalenza della componente slava. E quest’ultimo punto, insieme alla storia, è importante per comprendere le vicende recenti, come vedremo nel seguito.

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La composizione della popolazione in base all’appartenenza religiosa riflette quella per appartenenza etnica, con una predominanza (oltre il 90%) dei credenti musulmani. La componente atea o agnostica, molto significativa ai tempi della Jugoslavia “titina”, si è negli ultimi decenni contratta, passando dal contare per un quarto della popolazione negli anni Settanta a una frangia marginale. Attenzione però: questo non significa che il Paese si sia desecolarizzato: il punto cruciale è che le differenze di appartenenza confessionale non sono la radice basilare degli attuali confronti.

PRESENTE E FUTURO DEL KOSOVO

Proviamo ora a ragionare sul presente, con un occhio al futuro, magari partendo da una simulazione solo all’apparenza ardita, ma utile per capire la questione che si pone anche in questi giorni più recenti. Immaginiamo allora che quattro cittadine della Toscana, cuore dell’Italia, si vengano a trovare non più in Italia ma in un altro Paese, perché il resto della Toscana, “de-italianizzata” per diversi motivi, ha optato per la secessione dall’Italia. In queste quattro cittadine, rimaste legate all’Italia, il 90% della popolazione è composto da italiani che non riconoscono la legittimità delle nuove autorità. Costoro non accettano in linea di principio il fatto di essersi trovati cittadini di un altro Stato, soprattutto perché in questo Stato nuovo si riconosce solo il 10% della popolazione delle cittadine in cui vivono. Costoro si trovano allora a sentirsi, a ragione, stranieri nella terra dove sono nati e cresciuti, dove erano nati e cresciuti madri, padri e antenati, dove hanno dato vita alle proprie figlie e ai propri figli. E dove stanno le loro case e un ettaro di terra da cui ricavano bene o male di che vivere, insieme agli aiuti che vengono dai parenti emigrati all’estero. A costoro hanno tolto il diritto di telefonare a prezzi normali ai congiunti che stanno oltreconfine (“da ora in poi solo via roaming”), poi hanno imposto di sostituire le targhe delle loro automobili con quelle emesse dallo Stato nuovo, cosa che può apparire non tragica ma che ha un impatto simbolico enorme. Stesso impatto simbolico ed emotivamente forte lo ha il fatto che, al posto di una “vecchia” bandiera, ce ne sia ora un’altra.

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A un certo punto costoro protestano, e le autorità locali si dimettono in massa. Lo Stato nuovo indice elezioni per rimpiazzare i dimissionari. I “toscani” disertano le urne elettorali, perché non riconoscono la legittimità dello Stato “nuovo”. A votare sostengono di voler andare i rimanenti “non toscani”, cioè a dire il 10% della popolazione delle cittadine cui ci si riferiva. Ma alla fine è solo poco più del 3% del totale degli aventi diritto al voto che deposita una scheda nell’urna. Risultato: il 3% e qualcosa degli aventi diritto al voto sceglie chi decide come saranno spesi i soldi dei contribuenti. Di tutti i contribuenti, inclusi i “non-toscani” che non sono andati ai seggi per votare. Come esempio di esercizio di democrazia non mi pare da indicare come virtuoso.

Il punto è qui, ma anche sul come superare l’impasse, evitando che il difficile dialogo avviato fra Belgrado e Priština/Prishtina venga compromesso e che nessuno si senta penalizzato da soluzioni affrettate o pasticciate (à la Dayton). Non tocca a noi dare ricette. Una cosa è però chiara: sia Belgrado sia Priština/Prishtina sanno che mettersi d’accordo è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per entrare a far parte dell’Unione Europea, obiettivo che entrambe hanno in comune.

E fra le cose certe ve n’è una seconda: come abbiamo visto, l’Italia ha ruolo e responsabilità di primo piano in questo caso, per questo dobbiamo auspicarne un maggiore attivismo sul piano diplomatico. Altri possono sviluppare iniziative, ma ritengo che in questo tema l’Italia abbia vantaggi da interlocutore che altri non hanno./StarMag.it

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