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MARIA TERESA LIUZZO PERSONAGGIO DI SPICCO DELLA LETTERATURA ITALIANA

Romanzo- ” E ADESSO PARLO! ” di Gilberto Antonioli

Poeta – Saggista – Critico Letterario )

Maria Teresa Liuzzo è un personaggio di spicco della cultura calabrese e italiana. Eccellente poetessa, direttrice di riviste e di movimenti letterari, come scrittrice si è affermata a livello di poesia in maniera decisa tanto da essere considerata una delle voci più significative del panorama poetico italiano. Ora esce con il suo primo romanzo “E adesso parlo! che la proietta immediatamente nel firmamento della letteratura italiana a un livello di straordinaria levatura non solo nel campo della poesia ma anche in quello della prosa.

Provo una certa difficoltà a descrivere le mie impressioni su questo straordinario romanzo di Maria Teresa Liuzzo che mi costringe a porre l’accento su quanto lei sia adeguata al ruolo di scrittrice, e quanto profonda sia l’assenza di tale riconoscimento, non per una mancanza di prove ma per un’analisi retroattiva che mi lascia meravigliato se considero le graduatorie ideali degli scrittori italiani degli ultimi decenni, quali si ricavano, sia dalle varie storie della letteratura, sia dalle antologie, anche le più raffinate, che proiettano, spesso, pagine d’incomprensibile presenza. Per la pochezza dei contenuti. Della intensità poetica e della musicalità. Della personalità degli attori presentati oppure dei presentatori. Quando mi sono addentrato nella lettura di “E adesso parlo” ho deciso di andare oltre il consueto ed immediato giudizio critico, per assumere una posizione anomala, ma non per questo inaccettabile, che mi introduce con proprietà e vigore, a brevi riflessioni sulla validità di questa letterata, riservata e perciòabbastanza isolata, ma a mio avviso molto importante per le sue proposte poetiche e non solo, di grande intensità dal punto di vista, sia della costruzione, sia delle tematiche proposte. Questasublimazione della fantasia prosaica e poetica, è certamente, non un completamento, ma un inizio che trova radici nelle precedenti fatiche letterarie di Maria Teresa, ma se ne distacca, per proposte di pensiero del tutto personali. La scrittrice calabrese scriverà sempre indagando ed invadendo campi inesplorati, in precedenza, senza abbandonare completamente, le precedenti incursioni, che riprenderà e riesaminerà con l’occhio del giorno che nasce, del tutto differenti, da ciò che si manifestava non solo in periodi da tempo passati, ma anche in momenti appena trascorsi. La fenomenologia di questa eccezionale opera letteraria, ci porta spesso a collocarla, alle impressioni raccontate da Cezanne, quando riporta il cavalletto sull’identico spazio del giorno precedente, per non avere una perdita di colore e di impostazione geometrica, ma senza ritrovare, le stesse sensazioni, gli stessi impulsi, le stesse proiezioni e prospettive. Ecco perché la sensazione è quella di un lavoro nuovo, esaltante, fatto di scoperte e intuizioni, e per questo motivo, rinnovato nelle emozioni, che si esaltano se il concetto risulta spezzato e ricomposto, sciolto e riannodato, interrotto e ricostruito, secondo modalità da reinterpretare, cercando di intuire le novità dei richiami, la mobilità delle frasi, la differente situazione interpretativa. Ecco come si presenta la necessità di compiere un’esegesi attenta e profonda, tale da porre l’accento sul come e sul perché l’importante letterata abbia voluto porre una virgola, una sospensione, una parentesi, abbia cioè, creato una trama che si presenta talvolta come tela coperta di colori simili ma non eguali a quelli di qualche ora prima. 

La tessitura è sempre sostenuta dalla musicalità e dal ritmo, sicure incursioni in periodi di studio e di passione, che sottolineano come spesso, tali caratteristiche abbiano il sopravvento sul significato come leggiamo nel capitolo II, “La nonna:

“feroci le albe di Mary mascherate di rosa, dove lei sempre obbediva al reo padrone del giorno, con le cicatrici chiuse dentro il petto, i fiori morti dell’età innocente, le mille croci cheardevano nel tempo, tra i soffi di pietra e i tanti pianti di miseria”,

dove i raggi del sole, alle prime luci del mattino, scendono sul petto come artigli che frenano il percorso di una vita innocente, perché vita di bambina.

Talvolta Maria Teresa Liuzzo, procede per sospensioni ed intermezzi sghembi, sconnessi ma non stonati e riesce ad entrare nella realtà che circonda la natura, facendo apparire, anche la coscienza dell’uomo, che non appare, ma che adatta le proprie ondulazioni a quelle del racconto, attraverso l’adattamento ad una presenza che ricorda quella sottile del filosofo della conoscenza.Talvolta, nel turbinio delle proposte più scabrose lei si richiama all’Assoluto, con la tensione al trascendente che prende e impone anche una rilettura di qualche pagina. È mistico il riposo che rivela i gesti del soggiorno, le opinioni,

i desideri, i tentativi, le pretese, nel turbinare degli eventi in successione. La prosa si rattrista e si concentra, la difficoltà del pensiero sorprende e sbalordisce, come chi sta osservando le rinunce delle nubi e si raccoglie dentro angoli nascosti con l’intima eredità della preghiera. Vibra in continuazione il richiamo al quale ho accennato che si concretizza nella soluzione che annuncia come “in angoli nascosti “si sviluppi l’eredità della preghiera. Si nota lo strisciare continuo della sua insofferenza che vibra verso schemi o progetti usuali che rimbalzano da vari contesti, inebriati di appartenere alla prassi.

Ed ancora la ribellione sottesa, verso genitori, fratelli e sorelle, parenti e finti amici, che rappresentano categorie di interesse, inquadrate come caste indiane, che spesso deprimono ostentando, la certezza dell’interpretazione che non muta, proponendo analisi che partono da tesi sbagliate e portano a conclusioni di dubbio, perché spesso il loro credo galleggia in superficie e basta la brezza sull’onda per rapire il colore o la voce. Derivazioni di profili omologati e per questo mancanti di impulsi, di confronti, di idee da smembrare, per poi ricomporle e gestirle come frutto di nuove intuizioni. La scrittrice trattiene nel suo io, la cultura della terra d’origine. Le invocazioni interiori, sono esposte con la ricchezza che la contraddistingue che offre la possibilità di conciliare il pensiero con la fantasia, la riflessione con il desiderio, al di là dei quali regna il sentimento poetico. Ribadisco che siamo di fronte ad un’anima insofferente di limiti e di obbligazioni da spendere a comando, che non si consegna al contingente, all’io che vaga sempre e non decide mai, alla persistente incapacità di sollevarsi per osservare se si presentano sentieri, un tempo nascosti, ma che ora si possono percorrere con un avanzare prudente (è costante la presenza del dubbio che provoca vortici di incertezza), esporre non sempre in maniera palese il tentativo di alzarsi in volo e veleggiare verso confini invisibili. Per superarli. Oltrepassatili, che cosa potrà lei trovare? Qui il dubbio si inserisce nel dubbio e l’incapacità di scegliere diventa drammatica. Ma è anche esplicativa di quanto ho scritto in precedenza sull’anima insofferente dell’io che non decide, perché Liuzzo sottolinea con insistente lucidità, le difficoltà della sua vita nella complessità di ogni brezza che la accarezza, ma poi la percuote diventando natura e della natura di fronte all’imprevisto. Dopo il visibile, c’è l’invisibile, che l’occhio non vede, ma che l’anima, con la sua sensibilità, è in grado di cogliere. 

Voglio ricordare un passo di Merleau-Ponty quando nel suo volume: “Il visibile e l’invisibile” scrive:

“I metodi di prova e di conoscenza, che un pensiero già installato nel mondo inventa, i concetti di oggetto e di soggetto che esso introduce, non ci permettono di comprendere cos’è la fede percettiva, perché essa è fede, cioè adesione al di là delle prove, non necessaria, intessuta di incredulità, in ogni momento minacciata dalla non-fede”,

dove si concentrano, in poche righe, tanti motivi che troviamo nel romanzo di Maria Teresa.

La presenza del visibile e dell’invisibile, del soggetto e dell’oggetto, ci permette di sottolineare un’ulteriore presenza nel volume che cerchiamo di approfondire, senza la certezza che questo tentativo riesca. Non esiste l’unità senza il molteplice, come non esiste la molteplicità senza il bisogno di comporre l’unità. L’arte rappresenta tale affermazione assiomatica in tutti i suoi campi ed in essi in ogni sua sfaccettatura. In molte pagine di “Adesso parlo”, vedo rappresentate con abilità sottile tali affermazioni.

La scomposizione e la ricomposizione di questo volume, ci permette di penetrare in anguste stanze, nei corridoi dove impera il buio, negli spazi resi impersonali dalla nebbia, dentro i quali si verifica il miracolo della frattura che si può ricomporre, avendo superato o interpretato il mistero di quanto è stato fin qui ricordato. La scomposizione, tuttavia, non sempre rappresenta il momento iniziale, l’azione primaria che sgretola il monte, e non lo sa ricostruire, ma può essere, invece, progetto realizzato di piccole parti, messe assieme armonicamente, a partire da un’idea, per proseguire, dal centro alla periferia a costruire visioni non visionarie, ma capaci di rappresentazione, sulla quale esercitare le nostre osservazioni più profonde, più elaborate, più ripassate e riproposte. 

Leggiamo una pagina del Vangelo con la spiegazione di un dotto studioso

che richiama pagine del romanzo della Liuzzo:

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio. Gv. 10,11-18

Non è facile per noi oggi, soprattutto per i giovani e i bambini, cogliere il significato di termini come pastore, pecora, gregge, agnello, sacrificio. Sono parole legate al mondo contadino e talvolta possono avere un significato positivo, ma altre volte anche negativo. La pecora può essere il simbolo della mansuetudine, ma se ti dicono che sei una pecora può anche voler dire che ti lasci trascinare. Il gregge può significare una massa anonima, ma oggi “immunità di gregge” vuol anche dire che abbiamo sconfitto il Coronavirus.

Nella tradizione biblica il pastore per eccellenza è Dio, colui che protegge. Nell’antichità il Pastore simboleggiava il Re, la guida del popolo. Anche Gesù si propone come pastore, ma aggiunge un particolare, si presenta come il “Buon Pastore”. Infatti si può essere pastori in modi diversi.

C’è il pastore che sfrutta, che usa e che abbandona le pecore. Il “buon pastore” invece è colui che “dà la vita” per le pecore. C’è una parola che sta al centro di tutta questa parabola: “la vita”. 

«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». 

Ma che cosa vuol dire per Gesù “dare la vita”? Il “dare la vita” non indica soltanto il “morire per …”. Vuol dire anche “generare vita” come fa una madre. Come sottolinea la parabola vuol dire soprattutto “prendersi cura delle pecore”.

Infatti più volte Gesù ribadisce che è venuto per insegnarci e aiutarci a vivere. E questo lo ha dimostrato concretamente aiutando i malati a guarire, difendendo i diritti delle persone più deboli ed emarginate. A chi ha sbagliato, sa dare sempre fiducia aiutandolo a ricominciare. Il Buon Pastore, dice Gesù, conosce le sue pecore, le custodisce, le difende, le chiama per nome. È bello quando qualcuno ti chiama per nome. È segno di una amicizia profonda, di una vera relazione. Non dice che le sue pecore gli obbediscono. Dice invece che lo seguono. Lo decidono liberamente. Gesù è un pastore buono che non impone, ma propone. Non pretende, ma offre. Abbiamo sempre identificato “i pastori” con i preti, con i vescovi. Tutti invece siamo chiamati ad essere pastori gli uni degli altri. Perché anche a noi è consegnato un piccolo gregge. La famiglia, i figli, gli amici, le amiche. Tutti dobbiamo imparare a guarire, ad ascoltare, ad accogliere, a seminare speranza! Per dimostrare che si è cristiani non servono autocertificazioni. Non occorre dichiararlo. Basta la vita. È sufficiente l’esempio. 1-

ProfDon Roberto Vinco, teologo e scrittore

Potremmo definire “E adesso io parlo” il romanzo dell’amore? Nonostante le incessanti vibrazioni di cattiveria, frustrazione e odio, possiamo definire questo un romanzo d’amore. La Liuzzo cita l’amore di Mary e Raf. Con pagine splendide. Ma cita anche l’amore di Budda, di Socrate e di Gesù.

Budda.

Siddhartha Gautama (566 – 486 a.C.) conosciuto come Gautama Buddha, Buddha Śākyamuni o semplicemente Buddha, non ha bisogno di presentazioni. Considerato nella tradizione buddista come “il risvegliato” o “l’illuminato”, le sue parole, frasi e insegnamenti hanno travalicato i millenni e ancora oggi sono straordinariamente vivi e fortemente attuali.

FRASI di BUDDA:

Migliaia di candele possono essere accese con una singola candela, e la vita della candela non sarà abbreviata. La felicità non diminuisce mai con l’essere condivisa.

Attraverso la violenza forse puoi risolvere un problema, ma pianti i semi per un altro problema.

L’odio non si spegne con l’odio, ma con l’amore: questa è la legge Eterna.

Nella mente ha origine la sofferenza; nella mente ha origine la cessazione della sofferenza.

Ci sono solo due errori che si possono fare nel cammino verso il vero: non andare fino in fondo e non iniziare.

Non c’è una via per raggiungere la felicità. La felicità è la via.

La profondità dell’amore crea un oceano intorno a te e tu diventi un’isola.

Chi fa del male soffre in questo mondo e nell’altro. Chi fa del bene gioisce in questo mondo e nell’altro.

Il tuo compito è scoprire qual è il tuo compito e dedicartici con tutto il tuo cuore.

Il cambiamento non è mai doloroso. Solo la resistenza al cambiamento lo è.

La Via non è nel cielo; la Via si trova nel cuore.

SOCRATE

Socrate, figlio di Sofronisco del demo di Alopece, è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale al quale si ispirarono successivamente altri pensatori fra cui Platone ed Aristotele. Nato ad Atene nel 470 a.C. morto ad Alopece nel 399 a.C.

“So di non sapere” disse Socrate dinanzi alla giuria che lo condannò a morte. Si tratta del concetto cardine del pensiero stesso di Socrate, un’aspra critica rivolta contro i sofisti, studiosi che “presumevano” di sapere, anzi, ne erano convinti. Un po’ come i tuttologi di oggi, persone che presumono di non avere alcuna necessità di indagare perché presumono di sapere già tutto. Mi è parso giusto collegare la mia riflessione, oltre al pensiero di Gesù e a quello di Budda, al pensiero di Socrate, perché un sapiente quale egli fu, non intendeva apparire tale ma spiegava come l’uomo avesse la necessità di partire dalla sapienza iniziale, per indagare di continuo e, in tal modo far capire quanto l’uomo ignorasse molto. 

Socrate sa bene da dove vuole partire: la consapevolezza di non sapere è un invito a conoscere, ad indagare, per imparare, per andare oltre quel mondo ordinario del conosciuto. Chi crede di sapere ogni cosa segue uno schema prestabilito, in altre parole, non indaga, non sperimenta, non scopre, non conosce, non si pone domande e perciò rimane fermo, immobile, statico, attinge esclusivamente dalla propria memoria.

Ecco perché ritengo che dichiarare di “non sapere” sia il modo più importante per esprimere la pochezza dell’uomo.  L’uomo ha la necessità, l’obbligo, quasi, oserei dire l’obbligo di esercitare di continuo il pensiero. 

Cogliere l’attimo che fugge costituisce, da sempre, un appello, una dichiarazione, una fede. Pensiamo ad Orazio che riprende concetti filosofici da Epicuro e con il suo famoso “CARPE DIEM” lancia il messaggio filosofico di cogliere con intensità l’attimo presente, che rappresenta quasi una lotta contro il tempo che se ne va, essendo indefinito.

Alla corte medicea, dei Gonzaga, degli Sforza, degli scaligeri e di molte altre, per un lungo periodo, cogli l’attimo, è stata la SUMMA del concetto di esistenza. 

Nel “Sabato del Villaggio”, Giacomo Leopardi termina la sua famosa poesia così:

” Godi fanciullo mio / stagion lieta è codesta / altro dirti non vò / ma la festa ch’anco tarda a venir / non ti sia grave”.

Perciò quando cogliamo, in maniera più subdola, la medesima spinta, illustrata da TV e da Giornali, non dobbiamo meravigliarci, ma soltanto riflettere sul desiderio spasmodico di accedere alle forme più svariate e fantasiose dei desideri più devastanti, perché l’intrigo appassiona e dapprima ci dona un’immagina e delle sensazioni profonde di soddisfazione per i possibili traguardi da raggiungere, resi possibili dalla filosofia del facile e del vuoto, mentre successivamente su potranno verificare, al contrario, turbamenti e forti indecisioni.

GESÙ CRISTO. La Sua Risurrezione è atto d’amore.

Qualunque argomento relativo alla validità del cristianesimo dipende dall’esame della Risurrezione di Gesù. Senza la Risurrezione, la nascita del cristianesimo e della Chiesa diventa un mistero ancora più difficile da spiegare della stessa risurrezione. 

I testimoni delle apparizioni attestano l’intervento di Dio su Gesù che non lascia alla morte l’ultima parola. Paolo parla così del contenuto essenziale della fede dei primi credenti: 

“poiché, se confesserai con la tua bocca che Gesù é il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio Lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo (Rom 10,9 ”

Anche negli atti degli apostoli, Pietro parla alla folla, evidenziando l’azione risuscitatrice di Dio contro quella dei crocifissori. Non mancano, però, proposizioni più recenti, in cui Gesù è soggetto attivo della sua Risurrezione. “Si parla allora del corpo di Gesù nella sua realtà fisica, che é della stessa natura biologica del nostro; per questo il Risorto può riprendere ad avere rapporti sensibili e persino riprendere la consuetudine di mangiare con i discepoli. Ciò significa che Gesù non é tornato alla vita di prima una vita mortale e caduca, ma gli è stata donata una nuova vita, la vita del mondo nuovo tanto atteso. Risuscitandolo, Dio lo ha fatto Spirito creatore di vita e perciò dotato della potenza vivificante di Dio Stesso, con la quale egli risusciterà i credenti (1 Cor 15,45). L’apparizione di Gesù è alla base della fede dei discepoli e delle pie donne, frutto di un rapporto intimo avuto con Gesù. Gesù entrò per rimanere con loro. Ed esse ricordarono le parole di Gesù. 

In tredici capitoli il romanzo racconta la storia di Mary che lascia, meravigliati, delusi, increduli. Mary inizia a raccontarci la sua vita fatta di stenti, di prevaricazioni, di azioni di incredibile crudeltà il tutto in un’atmosfera nella quale la sua famiglia la disprezza e la soggioga. Mary sopravvive aiutata dall’amore verso Raf che laconsola e la rende forte in molti momenti di disperazione. Il padre la picchia, uno zio la palpeggia, la mamma non la protegge. Molte pagine portano alla memoria situazioni che danno vita o ridanno vita a personaggi della Bibbia come Mosè, come Giobbe, come Davide.

Leggiamo pagine nelle quali siamo avvinti da guizzi che attraversano lo specchio che permette la visione della vita non solo presente ma anche trascorsa e che si adagiano come flussi che non si riesce a regolare, Di fronte a queste situazioni difficili da arginare spesso Mary reagisce disperata.

Nel capitolo III: “La prigionia, si apre una parentesi di quiete e di carezzevole compagnia, quando vicino a casa sua arriva una famiglia nobile che abita in una villa molto bella. I proprietari conoscono Mary e la invitano a trascorrere ore con loro. Durante la giornata Mary, è ospite della nobile famiglia che ha l’abitazione non lontano dalla sua. Momenti di spensieratezza, come dovrebbe essere per qualsiasi persona in età giovanile. Regali, trattamento molto dolce, momenti di straordinario calore. Ma questa vita è destinata a durare poco. La nobile famiglia dei vicini parte e Mary ripiomba nella vita precedente, Il padre la picchia, la madre la ignora, la parentela la sfugge. La giovane desidera morire e sogna Raf al quale confida la sua situazione, il suo profondo dolore, l’incredibile comportamento della famiglia. 

La vita di Mary sembra essere intessuta come una trama sottile, ma incredibilmente larga di dolore al quale non può sfuggire, in quanto la situazione è sempre più contraria alla sua serenità. Il tutto è sempre immerso in un clima poetico di alto livello che prende il lettore, lo avvince e lo invita a leggere pagine varie di storia, di filosofia, di ogni tracciato dello scibile umano.

La vita di Mary si snoda sempre fra momenti di grande dolore e momenti di sogno nel quale si rincorrono brividi di freddo, di luci e di ombre. 

È sempre un rincorrersi di azioni inconsapevolmente portanti al pianto. Sono sentimenti che soprattutto la avvolgono di notte, quasi sempre impietosamente ripiena di balenii di luci, di immersione dentro acque che sono spruzzate sugli scogli i quali inconsapevoli diventano parte integrante di una vita difficile da comprendere. Mary ritorna spesso con la mente a Raf, che le appare nel sonno e la fa sognare, consolandola. 

Un momento splendido per la capacità di sollevare l’attenzione è descritto con l’arrivo di un principe che ama Mary e riesce a sposarla. Ecco la sovrapposizione del volto di Raf con quello del principe.

Sarebbe troppo semplice e rassicurante se il matrimonio fosse il momento d’inizio di una vira serena. Ma il marito diventa l’amante di una sorella di Mary: Fiamma. La parentesi si chiude e riprende la vita di sofferenza e di dolore. 

Inizia una parte di vita complicata ma descritta con maestria da Maria Teresa Liuzzo. Dalla nascita della figlia Priscilla, che sarà un’altra causa di dolore, in quanto si dimostra contraria, in maniera molto dura, alle idee della madre. Leggiamo del pentimento, in punto di morte del padre che chiede perdono alla figlia che glielo concede. Leggiamo della constatazionedell’esistenza, mai scomparsa dell’amore di Raf. Siamo avvinti da pagine che denotano una singolare maestria nella scrittura di Maria Liuzzo che ci avvince ancora con parole di riflessione che fanno ricordare grandi scrittori conosciuti e famosi come diventerà, certamente lei.

Prof. Gilberto Antonioli ( Poeta – Saggista – Critico letterario )
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