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’intesa tra Grecia e Albania sul confine marittimo è un messaggio contro l’attivismo della Turchia nel Mediterraneo

Atene e Tirana hanno deciso di far risolvere al tribunale delle Nazioni Unite la loro controversia per un tratto di mare vicino a Corfù e hanno ritirato lo stato di belligeranza, attivo dal 1940. Una svolta voluta dal premier greco per evitare che Erdogan usi le basi militari albanesi

Martedì 20 ottobre a Tirana il primo ministro albanese Edi Rama e il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias hanno annunciato in una conferenza stampa congiunta l’intenzione di demandare alla Corte internazionale di Giustizia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) la risoluzione di una storica controversia relativa ai loro confini marittimi: il tratto di mare tra l’isola di Corfu e la terraferma albanese che nel punto più vicino misura meno di tre chilometri.

Nella stessa occasione Dendias ha anche dichiarato la volontà di Atene di ritirare lo stato di belligeranza con Tirana, formalmente in vigore dal 1940, quando l’Italia fascista invase il paese ellenico muovendo dall’Albania, già protettorato italiano. Le due parti hanno anche affermato l’importanza delle rispettive diaspore – la minoranza greca in Albania e la folta comunità di immigrati albanesi in Grecia.

La novità non sarà rivoluzionaria, ma di certo è significativa, come testimonia anche l’attenzione che ha suscitato a livello continentale. Anche la Commissione europea, via tweet della portavoce Ana Pisonero, si è congratulata con i due Stati balcanici per questa decisione, a lungo procrastinata. Per ironia della sorte, l’unica volta in cui le parti erano riuscite a trovare un accordo, nel 2009, questo era stato in seguito annullato dalla Corte costituzionale albanese, che era stata invitata a esprimersi sulla questione da parte del Partito socialista, allora all’opposizione, ma già guidato dallo stesso Rama.

Nella penisola balcanica le intese bilaterali, specie quelle non patrocinate da potenze esterne (Ue o Usa), non sono pressoché mai all’ordine del giorno. L’unica novità recente in netta controtendenza, l’accordo greco-macedone sul nome Macedonia del Nord, era stato ostracizzato nelle piazze e nel parlamento greci soprattutto dall’opposizione conservatrice di Nuova democrazia, il partito che oggi esprime la maggioranza di governo.

Sia Grecia che Albania hanno validi motivi per mostrarsi disponibili ad appianare le divergenze per via diplomatica.

Soprattutto Atene, che ha al momento un obiettivo prioritario: contrastare l’assertività della Turchia, tornata prepotentemente alla ribalta nel Mediterraneo orientale e non solo.

A partire da fine 2019, i già tesi rapporti greco-turchi stanno vivendo continui inasprimenti.

Lo scorso novembre la Turchia ha siglato con il Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Sarraj – l’entità statale libica con sede a Tripoli riconosciuta dalla comunità internazionale come legittimo rappresentante del paese nordafricano – un accordo per la demarcazione dei rispettivi confini marittimi, quindi delle rispettive Zone economiche esclusive (Zee), che assegna ad Ankara un ampio tratto di mare racchiuso tra Creta, Rodi e Cipro, rivendicato anche dalla Grecia. La fetta di acque marittime che secondo l’intesa sarebbero da considerarsi turche bordeggia alcuni territori greci, tra cui l’isola di Kastellorizo.

In base alla Convenzione Onu sul diritto del mare (1982), le Zee sono porzioni di mare adiacenti al “mare territoriale” che uno Stato può proclamare proprie al fine di garantirsi diritti esclusivi di sovranità in materia di esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse ittiche, oltre a una serie di altre prerogative. Lo Stato titolare non può però impedirne la navigazione e il sorvolo, né la posa di condotte e cavi sottomarini da parte di Stati terzi. Come spiega l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), con questa mossa la Turchia mira a ritagliarsi voce in capitolo sul passaggio dei futuri gasdotti e oleodotti che pomperanno in Europa energia proveniente dai nuovi giacimenti scoperti nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente, come il Leviathan israeliano.

Le manovre turche hanno convinto Atene a replicare. A giugno i greci hanno trovato un accordo con l’Italia sulla demarcazione di confini e Zee nel Mar Ionio, aggiornando l’intesa del 1977, e due mesi più tardi è stato il turno dell’Egitto.

Lo scorso marzo, inoltre, Ankara ha improvvisamente permesso ai migranti accampati sul proprio territorio, perlopiù siriani, di attraversare il confine e tentare di mettere piede sul territorio greco, ovvero su territorio Ue, per richiedere asilo. Questa decisione ha messo sotto pressione la frontiera greca nell’area tra Edirne e Alessandropoli, spingendo il governo del premier Kyriákos Mitsotákis a schierare imponenti forze di esercito e polizia per respingere i migranti. Nell’occasione la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen aveva ringraziato la Grecia, definendola lo “scudo” dell’Ue, nonostante le innumerevoli e verificate violenze praticate dalle forze dell’ordine greche contro migranti inermi. Incassato un sostegno così manifesto da parte di Bruxelles, la polizia greca ha ulteriormente inasprito la propria azione repressiva nei mesi seguenti, arrivando al punto di condurre barconi carichi di migranti in alto mare e sospingerli verso le acque turche dopo aver prelevato tutto il carburante.

Infine, negli ultimi mesi si è assistito a un aumento dell’assertività turca a Cipro e dintorni. Le trivellazioni in acque di cui Atene e Nicosia rivendicano la giurisdizione, mai sospese da Ankara, hanno generato delle schermaglie tra navi turche e greche in cui si sono inserite anche unità francesi. Grecia, Turchia e Francia sono membri Nato.

Limitare il crescente attivismo turco è quindi un imperativo per Atene.

Dal canto suo, l’Albania cerca il sostegno della Grecia per l’integrazione nell’Ue. Sebbene sia spesso sovrastimata, l’influenza turca nella piccola repubblica adriatica è in aumento. Ankara non può giocarsi la carta religiosa – seppur nominalmente musulmani, gli albanesi sono tendenzialmente poco credenti – ma può mettere in campo tutto il potenziale della sua diplomazia culturale (la valorizzazione del patrimonio storico-architettonico di epoca ottomana), nonché il suo ragguardevole peso economico. Emulando quanto fa Belgrado con Mosca (e Pechino), Tirana può tatticamente fingere di cedere alle sirene di Ankara per drenare maggior attenzione (e risorse) dai partner europei, in una fase in cui il processo di allargamento procede a passo di lumaca.

Non è un mistero che alla Turchia farebbe comodo poter utilizzare le basi militari albanesi, sfruttando come giustificazione la comune appartenenza alla Nato, per mettere pressione al vicino greco anche sul fronte occidentale. La simpatia della Grecia, con cui i rapporti non sono mai stati idilliaci, può servire all’Albania anche per ammorbidire le posizioni degli Stati membri più contrari alla sua entrata nel club, come Paesi Bassi e Danimarca, preoccupati per le storiche carenze di Tirana in termini di lotta al crimine organizzato.

L’intenzione condivisa di ricorrere a una corte di arbitrato internazionale per dirimere definitivamente la disputa potrebbe così segnalare l’inizio di una fase più collaborativa tra i due Stati balcanici. Finora gli Stati già membri dell’Ue si sono dimostrati più inclini a usare il proprio potere di veto per imporre condizioni sfavorevoli ai paesi candidati – come la Bulgaria con la Macedonia del Nord – che a stabilire con loro un dialogo paritario./ Linkiesta.it

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